Il passato sta distruggendo il mondo. E l’unico punto di salvezza è constatare gli effetti di questo Amarcord felliniano sulle giovani generazioni, le quali fuggono a tutta birra tecnologica da quell’alone mortifero e ingessante che cerca di intonacarli al muro.
I vecchi dinosauri della critica musicale si ripropongono lungo panorami evanescenti che lasciano il tempo che trova nell’affiliazione di nuovi fedeli, si contentano di nutrire di vecchie storie coloro che in realtà quelle storie le conoscono già, più o meno a menadito (il target dei cinquantenni-settantenni, insomma, forza dell’algoritmo decisionale) e che pure amano raccontarsele riattizzando il ceppo del bel tempo che fu, stando vicini e in tutta comodità ad un falò virtuale dove alcol e canne non si condividono più di bocca in bocca, come quando furono giovani e monelli, lasciandoci così in eredità fiumiciattoli di parole volte a testimoniare lo stantio di epoche gloriose e remote, che giungono sino a noi completamente prive di profumi acri e destabilizzanti: asettiche cornicette di testo.
Tuttavia da questi ricordi non affiora mai un raffronto critico con il presente: riletture e analisi, prospettive e battaglie, sono lasciate cadere nel nulla, non menzionate, col risultato di non produrre alcun buon cibo per la mente, mancando di un contesto idoneo ove bruciare.
Il petit falò d’antan, acceso da menti sorpassate, dovrebbe indurli , per onestà intellettuale, a generare un nuovissimo quanto immenso e feroce incendio che trabocchi di passione e si propaghi al pari del covid 19 tra i lettori – ma è, logicamente, preferibile la quiete alla tempesta.
Tutto quello che passa in un rock mag è organizzato e ordinatamente confezionato in una capsula spaziale, staccato dalla vita moderna, con cui non c’azzecca niente di niente, dopodiché viene semplicemente consegnato alla deriva cosmica, senza colpo ferire; roba indirizzata al regno del fatuo. Amen. Un bagliore d’artificio sparato a mezzanotte che scompare nel nulla, anzi, nella buonanotte.
D’accordo, la bellezza di certa musica ‘rock’ del passato resta, e ci mancherebbe! Quella suonata è del resto inviolabile, basta ascoltare i dischi di allora digitalizzati su YouTube; ma cosa ci guadagniamo nel calarci in articoli immersi entro mondi che con l’oggi non hanno più niente a che fare neppure a livello di costruzione dell’immaginario?
Eppure la musica, anche in ottica rock, continua ad essere sfornata e in senso più generale ad essere realizzata; le si continua a dare una certa importanza, anche se purtroppo via via più esigua, quasi secondaria ad altro; diciamo che la musica è diventata un fatto prettamente privato e che non si vuole troppo condividere, non concepisce reale apertura verso il prossimo, forse perché chi l’ascolta sarà stranamente stato mutato in taccagno da qualche elfo dispettoso? Boh!
È vero, zampillano a destra e a manca una moltitudine di mini-festival jazz, blues in seconda battuta, e men che meno rock; come se il jazz poi fosse radicato nel popolo italiano più del rock (ma quando mai!). Di certo il jazz lo si può suonare con piacere, perché è musica che non fa ‘casino’ ed è quindi tollerabile anche nei sonnecchiosi borghi antichi d’Italia, rientrando in logiche estetico-turistiche d’accatto.
Quindi, per salvarci da tutta una serie di accomodamenti editoriali (anti-rock per definizione) che ci impantanano in una palude malarica e puzzolente, ecco che, come dicevo, dovremmo osservare (ma chi ce le farà notare?) le punte estreme di una musica che si pone oltreconfine a tutto ‘sto BIG SLEEP monotono e reiterato fino allo spasimo. Giacché, pur esistendo questa musica posta agli antipodi del Mainstream, pare naturale che essa nasca anche da un genuino pensiero eversivo e critico, rinvigorendo giustappunto quello che è lo spirito di un nascente movimento artistico, cioè, il proporsi d’assumere un ruolo che non accondiscenda con la senescenza delle scene passate.
Provvisto di un’insita dialogica controcorrente, corrodente i vecchi stilemi e i panorami artistici pop, nell’odierno invero inservibili, se non a patto di trasformarli e riutilizzarli in un discorso rivoluzionario dove il vecchiume non sia più fulcro sterile, foriero di ipocrisie e scimmiottamenti da pop-poco-stars, bensì si faccia materiale da componimento, da smembrare e destrutturare ed immettere in nuove correnti espressive situate nelle operose periferie culturali, cui ragion d’essere è la proliferazione, la veridicità di urgenza espressiva e di un sentire transmediale.
Il rintracciare questi pazzi musicisti, gli artefici del nuovo, ha appunto un compito salvifico, poiché tramite loro si respirerà aria pura, di apertura inimmaginabile, e si intercetteranno sensibilità alternative, votate al cambiamento artistico, seppur grossolane, dato che sono in divenire, e che valgono quanto una tonnellata di Amarcord museali osannati ancor oggi sugli altari di una cultura seppellita e catacombale.
In fin dei conti, non siamo ancora estinti, quindi perché darci la zappa sui piedi proprio ora che percepiamo come straripante l’esigenza di abbandonare le cappe per andare a vivere liberi incontro all’aria aperta e a spada tratta?
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