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Recensione : Flash On You: The Saints – (i’m) Stranded

The Saints - (I'm) Stranded: In questo mese ricorre un anniversario importante, perché nel febbraio del 1977 (precisamente il 21) veniva pubblicato l'esordio degli australiani Saints, "(I'm) Stranded".

Ciao ragazzacci/e, oggi inauguriamo una nuova rubrica periodica di retrospettive per parlare di band e recensire dischi del passato (recente o remoto) con un particolare occhio/orecchio di riguardo per i classici del garage rock/punk, beat, psichedelia, noise, alternative, punk, hardcore ecc. ecc. insomma la nostra musica preferita e quella di cui già scriviamo su InYourEyes nel quotidiano, ma in questa veste tutto verrà filtrato attraverso una visuale retroattiva. Questo nuovo spazio si intitola “FLASH ON YOU“, come uno slogan immediato, in primis inteso come una sorta di omaggio al seminale album dei nostrani Not Moving, ma anche concepito come riflettore (il famoso vecchio “flash” della macchina fotografica) puntato sui più o meno vecchi dischi che andremo a trattare di volta in volta. Bene, bando alle ciance e andiamo a incominciare!

The Saints - Flash On You: The Saints – (I’m) Stranded

 

In questo mese ricorre un anniversario importante, perché nel febbraio del 1977 (precisamente il 21) veniva pubblicato l’esordio degli australiani Saints, “(I’m) Stranded“, disco oggi considerato, all’unanimità, uno tra gli indiscussi capisaldi del punk rock mondiale e uno degli album di debutto più incendiari della storia del rock ‘n’ roll tutto.

Celebriamo, quindi, i 45 anni di questo Lp (limitandoci a trattare solo il contesto in cui ha preso forma la tracklist originaria, e non tenendo conto del materiale aggiunto dopo le ristampe che si sono succedute nei decenni a venire) che ha riscosso consensi entusiastici un po’ ovunque ma, in primis, assolutamente fondamentale per lo sviluppo della scena rock (a pari merito, va detto, con l’album “Radios Appear” dei coetanei Radio Birdman, uscito anch’esso nel 1977, ma in luglio) nella terra natia della band, l’Australia, isola/continente che, da almeno mezzo secolo a questa parte, ha sfornato e ci ha regalato grandissimi gruppi che hanno fatto scuola nel sottobosco dell’underground e, successivamente, anche nel mainstream: Nick Cave coi Boys Next Door, poi Birthday Party (insieme al compianto Rowland S. Howard) e successivamente Bad Seeds; gli Scientists, i Celibate Rifles, i Feedtime, gli Stems, gli Hoodoo Gurus, i Cosmic Psychos, i Lime Spiders, i BORED!, gli Hard-Ons, i Lubricated Goat, gli Screaming Tribesmen, i Died Pretty, i Beasts Of Bourbon, i Go-Betweens e tanti altri.

Sarebbe stato troppo facile incensare il primo album dei Ramones, quello dei Pistols o dei Damned. Quello lo hanno fatto già in tanti, anzi tutti. In pochi, invece, hanno riconosciuto (se non decenni dopo la sua pubblicazione) la rozza grandezza di una gang di ragazzi australiani e della loro opera sottovalutata.

E’ la sfiga dei precursori, quella di nascere troppo presto, nel luogo e nel tempo sbagliato, e portare avanti innovazioni alle quali poi, in seguito, viene assegnata la paternità ad altri, anche solo perché è stato deciso dalla macchina dei media modaioli che utilizzano il proprio potere per promuovere maggiormente chi ha avuto la fortuna di nascere in (o gravitare verso) metropoli come Londra o New York, snobbando invece chi proviene da luoghi sperduti poco cool, o nel Queensland, cioè dall’altra parte del mondo che conta.

E questo discorso non riguarda solo i Saints o i Radio Birdman, ma potrebbe benissimo comprendere anche storie incredibili come quelle dei Sonics e dei Saicos, oggi ampiamente rivalutati e celebrati, da tanti musicisti, fans e addetti ai lavori, come i veri precursori delle aspre e frenetiche sonorità punk rock, ma per decenni caduti nell’oblio perché provenienti dalla remota provincia americana (Tacoma) e dal Perù. Born too early.

 

La genesi di “(I’m) Stranded” era stata anticipata da un 45 giri autoprodotto, in sole 500 copie, lanciato nel settembre 1976 (e distribuito nel Regno Unito dalla piccola label Power Exchange) contenente l’epocale title track e, sul lato B, “No Time” (registrate con la chitarra accordata per emulare il suono di Bo Diddley) che suscitò interesse (elogi dalla rivista “Sounds” e airplay dedicatogli dal DJ John Peel sul primo canale radio nazionale della BBC) e  aveva fatto guadagnare alla band di Brisbane (formata dal cantante di origini irish Chris Bailey, il chitarrista Ed Kuepper e la sezione ritmica composta da Kym Bradshaw al basso e Ivor Hay alla batteria) un contratto, nel novembre 1976, col colosso inglese EMI (che ristampò il primo singolo il mese successivo) per tre Lp.

E prima di entrare in studio per marchiare a fuoco il suo primo 33 giri, il quartetto aveva già sperimentato la strada dell’indipendenza e dell’autogestione, in anticipo sui tempi rispetto al primo punk inglese (che propagandò parecchio questi concetti) fondando la propria piccola label per distribuire la musica (Fatal Records) trasformando lo squat in cui vivevano (a pochi passi dal dipartimento di polizia locale, che spesso interrompeva le prove e i concerti per eseguire arresti) in un club dove esibirsi dal vivo, formando la propria compagnia di promozione e distribuzione (Eternal Promotions) quando la cattiva fama di “violenti provocatori” accompagnava la reputazione della band in città e nessuno voleva averci a che fare. E si era esibito in tour, tra fine ’76 e inizio ’77, come supporto a degli allora giovani e scapestrati AC/DC, per poi traslocare a Sydney.

Il long playing è stato registrato in presa diretta, in un weekend nel dicembre 1976, e il chitarrista di origini tedesche Ed Kuepper ha spiegato che quelle sessioni furono così veloci, impiegando solo due giorni, perché praticamente la band incise i brani del repertorio che già faceva parte del proprio live set, quindi già rodati dal vivo, più le primissime composizioni del combo aussie, “Nights in Venice” e “Messin’ with the Kid“. La produzione, curata da Rod Coe e Mark Moffatt, esaltava l’infuocato wall of sound chitarristico che contraddistingueva i primi Saints, un muro di rumore impressionante. Musicalmente, “(I’m) Stranded a livello sonico era bruciante come lava zampillante da un vulcano in piena eruzione, e tutto l’Lp trasmetteva un feeling oltraggioso di eccitazione e pericolo superiore a qualunque altro disco contemporaneo uscito in Europa o negli Stati Uniti, un sound talmente sguaiato e slabbrato da far impallidire gli stessi Sex Pistols, i Damned (il cui fondamentale debut album “Damned Damned Damned” fu pubblicato appena tre giorni prima rispetto a “(I’m) Stranded“) e persino i primi album dei Ramones, forse l’unica pietra di paragone possibile in termini di stravolgimento dei canoni del rock dei Seventies (non a caso proprio la Sire, storica etichetta che aveva messo sotto contratto Joey Ramone e “fratelli”, si incaricò di stampare e pubblicare il disco dei Saints sul mercato americano) ed effettivamente i quattro selvaggi di Brisbane, sbucati fuori dal nulla di lande desolate, erano riusciti a centrifugare, in un’unica entità e una manciata di canzoni, tutte le peculiarità della prima ondata punk mondiale: i fast tempos e l’energia al fulmicotone dei primi Ramones, l’alienazione e la disaffezione dei giovani, (descritte alla perfezione nel testo della title track, di “Messin’ with the Kid” o “One Way Street“) ma anche la loro libido adolescenziale (“Erotic Neurotic“) la sferzante “fuck you attitude” dei Sex Pistols e dei Dead Boys e gli uncini melodici alcoolici-tossici e burini tipici di band come i primi Clash, gli Heartbreakers e i Buzzcocks, senza dimenticare la lezione del proto-punk della Motor City.

I riferimenti risultavano chiari: un piede nel presente (da loro anticipato? Avevano iniziato prima i Saints in Australia nel 1974 o i Ramones a New York? E’ un po’ come la storia dell’uovo e della gallina) e uno nel recente passato. La scena rock ‘n’ roll della tumultuosa Detroit di fine anni Sessanta/inizio Settanta era molto apprezzata, e infatti le influenze di Stooges e MC5 sono ben presenti nel turbinio elettrico dei brani, trainati da una forza di intenti e da una potenza strumentale devastanti.

Basti ascoltare, oltre all’opening track che dà il titolo all’opera (il classico tipo di canzone che quando ti prende non ti molla più e non ti stancheresti mai di ascoltarla, anche in loop, cinquanta volte di seguito) anche la furia iconoclasta di pezzi come “One Way Street” e “Erotic Neurotic“, ma anche “No Time” e “Demolition Girl“, che farebbero ballare e saltare anche le montagne, o il marasma conclusivo di “Nights in Venice“, che a metà durata deflagra in un delirio chitarristico che arriva a sfiorare e quasi a “battezzare” il noise rock.

Ma non manca il collegamento col garage rock di diieci anni prima, con la cover di “Wild about You” dei connazionali Missing Links (l’anello fuzzato e riverberato di congiunzione tra i primi vagiti del rock dei canguri e il proto-punk) e sorprese come le due ballad elettriche “Messin’ with the Kid” e “Story of Love“, o ancora la cover della cover di un vecchio pezzo, “Kissin’ Cousins“, ripreso dal film omonimo (rinominato “Il monte di Venere” in italiano) del 1964 in cui veniva cantato da Elvis Presley (altra influenza cruciale, infatti la prima incarnazione pre-Saints nel 1973, i Kid Galahad & The Eternals, prendeva il nome da un altro film in cui Elvis fu protagonista, “Kid Galahad” – Pugno Proibito – del 1962).

Nel maggio 1977 venne rilasciato un altro singolo, la (succitata) esplosiva “Erotic Neurotic” , un pezzo punk dal groove assurdo, lanciato in corsa come un treno a folle velocità, che a suo modo ha preconizzato i ritmi ipercinetici dell’hardcore punk.

In seguito a questi avvenimenti, e informati dalla EMI del fatto che qualcosa di enorme in campo musicale si stesse muovendo in Inghilterra, e che in terra d’Albione i Saints avessero iniziato a costruirsi un’ottima reputazione presso la scena punk locale, nonché allettati dalla prospettiva di riscuotere ulteriori consensi nel mercato britannico ed europeo, folgorato dalla rivoluzione musicale, concettuale ed estetica del punk rock, Kuepper e compagni fecero armi e bagagli e compierono il grande salto, trasferendosi a Londra, all’epoca assurta a Mecca del “nuovo rock”, credendo nella genuinità della loro proposta e decisi a farla arrivare a un pubblico decisamente maggiore di quello australiano. Ma le cose non andarono esattamente così, i Saints e la EMI (la stessa major che, nello stesso anno, fu smerdata dai Sex Pistols nel loro celebre brano, contenuto nell’altrettanto rivoluzionario e spartiacque album “Never Mind The Bollocks, Here’s the Sex Pistols“) entrarono subito in conflitto a causa delle strategie di marketing, con la major discografica che voleva promuovere il gruppo secondo la moda all’ultimo grido, per ingraziarsi la platea giovanile dei “kids”, sfoggiando tutti i cliché del punk (musicisti agghindati con borchie, giacche di pelle, spille da balia, capelli cortissimi e creste mohicane, il tutto condito da un’attitudine provocatoria, attaccabrighe e rissaiola) mentre la band insistette per mantenere la propria immagine (il frontman Bailey e il bassista Bradshaw avevano addirittura i capelli lunghi, un’eresia negli anni in cui i fondamentalismi del punk rock facevano furore) senza snaturare la propria identità per vendere l’anima al diavolo del music business.

Seppure in quel periodo raccolsero attestati di stima importanti (ricordiamo la nota frase del “baronetto” Bob Geldof: “Negli anni Settanta la storia della musica rock è stata cambiata da tre gruppi: i Sex Pistols, i Ramones e i Saints“) accolti e recensiti con fervore dalla stampa specializzata e ai concerti, i nostri non si fecero una buona opinione riguardo alla scena inglese e ai meccanismi di controllo artistico esercitati dalle case discografiche e dai manager affaristi, e questo loro malcontento lo espressero in un brano, “Private Affair“, contenuto nel secondo Lp, “Eternally Yours” del 1978 (e nel frattempo avevano cambiato bassista, rimpiazzando il partente Bradshaw con Algy Ward, che registrò il singolo “This Perfect Day“, altra pietra miliare della discografia dei “Santi”) in cui denunciavano che la scena punk inglese era diventata esattamente come quel vecchio “rock dei dinosauri” hippies che i proclama del punk si erano prefissati di seppellire per sempre, un universo irreggimentato con le sue regole, i suoi codici, i suoi rituali, le sue liturgie e il suo malcelato arrivismo, dove tutti gli adepti vestivano la stessa uniforme come soldatini (aizzati dalle stravaganze del “pifferaio magico” Malcolm McLaren e dalle boutique trasgressive di Vivienne Westwood) giocando a fare la rivoluzione, mentre le grosse compagnie discografiche avevano scoperto un nuovo e meraviglioso modo di fare un sacco di soldi sfruttando l’ingenuità e l’esuberanza di un movimento inizialmente nato dal basso e permeato sia dalla rabbia popolare della working class sia dall’entusiasmo ormonale giovanile, e in seguito corrotto dall’interno e cooptato dal sistema borghese, che lo ha trasformato in una etichetta per il consumismo, una macchietta delinquenziale di costume (in cui tutti i punk erano dipinti mediaticamente e indiscriminatamente come un pericolo per l’incolumità pubblica, teppisti, stupidi e ignoranti) e una moda da riviste di gossip e passerelle.

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Esaurito il fuoco, nel 1979 (dopo un altro album, “Prehistoric Sounds“) anche il resto della line up “classica” dei Saints giunse alla completa dissoluzione, con l’abbandono del batterista Hay, arrivò al capolinea il sodalizio artistico tra i due autori principali del gruppo, Bailey e il chitarrista Kuepper, con quest’ultimo che lasciò la band per intraprendere un nuovo percorso fondando i Laughing Clowns, Algy Ward entrò a far parte dei Damned, mentre Bailey tenne in vita la band, virando verso sonorità ancora spigolose, ma dalla sensibilità pop e lontane dalla carica distruttiva in-your-face che contraddistinse il primo, ineguagliabile disco.

Del resto, come insegna la parabola del punk, le grandi fiammate sono destinate a bruciare ardentemente e poi a spegnersi in fretta. Ma negli annali è rimasto impresso quell’ardore primigenio con cui “(I’m) Stranded” ha contribuito a dare una bella botta allo scuotimento delle fondamenta incartapecorite del mondo patinato del rock pre-1977, e la storia del rock ‘n’ roll riserverà (o almeno, dovrebbe riservare) per sempre un posto di rilievo a questo disco, rendendo imperituro omaggio a questa band, tra le principali protagoniste di quel periodo musicale irripetibile.

TRACKLIST

1. (I’m) Stranded
2. One Way Street
3. Wild About You
4. Messin’ With The Kid
5. Erotic Neurotic
6. No Time
7. Kissin’ Cousins
8. Story Of Love
9. Demolition Girl
10. Nights In Venice

The Saints – (I’m) Stranded

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