Per motivi anagrafici (e geografici, e naturalmente economici) chi vi scrive non ha potuto vedere dal vivo tantissime band fighe del passato, ma nonostante questa mancanza, non ha avuto bisogno di ascoltare le loro canzoni su una serie tv “di successo” per scoprirle.
Oggi, purtroppo, funziona così: in assenza di qualcuno che le guidi e le dia gli strumenti adatti (solo il formato cartaceo dei libri resiste ancora, ma è in una riserva indiana, in un Paese come l’Italia, nel quale la stragrande maggioranza delle persone usa i libri solo come oggetto scenografico per arredare il soggiorno, o come sostegno per raddrizzare le gambe di tavoli e sedie, o come sottobicchieri, ma fino a pochi anni fa c’erano tanti negozi di dischi, qualche canale televisivo tematico e un buon numero di riviste musicali a dare consigli e svolgere un’indispensabile funzione sociale e culturale, ma erano importanti anche la collezione di album dei genitori illuminati, o i dischi che i/le fratelli/sorelle più grandi acquistavano o registravano su cassetta, e poi li giravano a quelli più piccoli, oppure gli scambi reciproci che si facevano, con modalità quasi da Carboneria, con quei quattro gatti che ascoltavano rock ‘n’ roll negli istituti scolastici che frequentavamo, e coi quali inevitabilmente si finiva per solidarizzare e fare amicizia) e anche a causa della loro pigrizia che si accontenta della superficialità di algoritmi che, nel mainstream, gli fanno trovare la pappa già pronta (rinunciando a un lavoro di ricerca e curiosità, nell’era moderna dell’internet senza limiti, in cui si può reperire e ascoltare praticamente tutto lo scibile umano prodotto in musica) l’unico modo con cui le giovani generazioni potrebbero conoscere band come gli statunitensi Fleshtones – o comunque certo rock ‘n’ roll in generale – è solo “grazie” a Netflix o altre piattaforme simili, perché avranno sentito un motivetto orecchiabile tipo “Blitzkrieg Bop” dei Ramones, o si saranno fatti una risata con la cantilena di “Surfin’ Bird” dei Trashmen, opportunamente infilati come sottofondo che accompagna qualche scena “virale” dalla serie tv del momento (come capitò, un paio di anni fa, col caso clamoroso del “successo” riscosso dai Cramps con la cover di “Goo goo muck“) e identificheranno questa musica dagli i-phones tramite l’applicazione “Shazam” e poi forse la troveranno su Spotify per ascoltarne quindici secondi e inserirla in qualche “playlist”.
Certo, in passato anche a “noi” capitava di restare folgorati o affascinati da una canzone inedita alle nostre orecchie, magari passata in radio o apprezzata dalla colonna sonora di un film o telefilm, e poi ci si avventurava a caccia di informazioni, stuzzicati da quel desiderio di mettere le mani (e i timpani) su qualche nuovo gruppo, ma il contesto storico pre-musica liquida imperante/social network era diverso, e il confronto con lo sconforto di oggi è qualcosa che, oggettivamente, mette addosso tristezza.
Ok, esaurito il “momento boomer”, resta comunque difficile immaginarsi che una band come i Fleshtones riesca a diventare “di tendenza” su una piattaforma come TikTok, ma in realtà poco importa perché, chi ama davvero il rock ‘n’ roll, non ha certo necessità dell’ausilio delle nuove piattaforme social per sapere chi siano i veterani garage rockers newyorchesi, da sempre capitanati dal frontman Peter Zaremba e dall’infuocata chitarra di Keith Streng, che dal 1976 (l’anno della loro fondazione) a oggi ne hanno veramente fatte e viste tante: dal farsi le ossa coi concerti al mitico CBGB (e costruendosi un fedele zoccolo duro di appassionati anche in altri luoghi ugualmente simbolici come il Max’s Kansas City, il Club 57, Irving Plaza, 9:30 club, Pyramid club e il Maxwell’s) al prestare canzoni alla soundtrack di film, dall’aprire concerti per mostri sacri come Chuck Berry e James Brown alle ospitate televisive con Andy Warhol e al condurre (Zaremba) un vero e proprio format su MTV negli Eighties, oltre a officiare festival di garage rock revival come il Cavestomp. Tutto all’insegna del “SUPER ROCK“, ovvero il modo in cui hanno battezzato la loro proposta sonora (una miscela esplosiva di proto-punk dei mid-Sixties, R&B anni dei Fifties alla Little Richard e sprazzi di surf music, psichedelia e soul alla James Brown) che ha fruttato dischi come “Blast off!“, “Roman gods” e “Hexbreaker!“, tutti lavori che occupano un posto di prestigio tra gli Lp più importanti della storia del garage rock/punk. Emozione, liberazione, beat, ritmo e catarsi.
Quest’anno gli highlander del garage rock sono giunti a pubblicare il loro ventesimo lavoro sulla lunga distanza, “It’s getting late (…and more songs about werewolves)” uscito su Yep Roc Records e arrivato a quattro anni di distanza dal pluri-rimandato (a causa della pandemia da covid) “Face of the screaming werewolf“. Nel mezzo, era stato rilasciato anche un 7″ con un due cover, “Festa Di Frankenstein” (rielaborazione di un brano degli Swinging Phillies, ma cantata interamente in italiano, anche grazie alla partecipazione dei Vindicators) e “The Dedication Song” (rivisitazione, con nuove liriche, della hit del 1966 di Freddy Cannon).
“It’s getting late” è un discreto esercizio di mestiere, sfornato da una band che, dopo quasi mezzo secolo sulle scene, non ha certo nulla da dimostrare a nessuno, ma non è affatto imbolsita: la voglia di fare baldoria è ancora intatta, i Fleshtones sono animali da palcoscenico e uno dei migliori party groups sulla piazza (e chi vi scrive può confermarlo: visti una volta in concerto, una delle esperienze più coinvolgenti fatte dal vivo) forti di una stabilità ultradecennale della line up (che, oltre alla premiata ditta Zaremba-Streng, vede anche il bassista Ken Fox e il batterista Bill Milhizer) con la loro attitudine festaiola che si fonde con estetica e immaginari Fifties/Sixties che, a volte, può sconfinare nel trash, ma non teme confronti quando si tratta di far divertire e ballare il pubblico e gli estimatori – oltre, ovviamente, agli aficionados del quartetto del Queens -. I lupi sono affamati e si cibano di episodi grintosi (come l’opener “Pussywillow“, la kinksiana “Way of the world“, “You say you don’t mind it” o “Wah wah power“) goliardici (“Big as my balls“, “Come on Everybody Getting High with You Baby Tonight“) euforici SUPER-ROCK come marchio di fabbrica ‘Tones (“Morphine drip“, “The consequences“) strumentali (“The hearse“, cover di Lee Hazlewood/The Astronauts) carcasse di dinosauri (vedasi la Stonesiana “Empty sky” o la cover di “Love me while you can” di Johnny Rivers). Non è mai troppo tardi per danzare coi licantropi nel pallido plenilunio.