I Foals giungono alla prova del terzo album forti dei grandi elogi di stampa e pubblico per l’elettrizzante esordio di “Antidotes” e la grande conferma di “Total Life Forever”.
Se già sembrava chiaro che la veste di math-rockers stesse stretta ai cinque ragazzi di Oxford, sempre meno propensi ad inseguire ritmi spezzati e danzerecci, ora Holy Fire dissipa ogni dubbio orientandosi verso un sound più avvolgente e intenso, più adatto agli stadi piuttosto che ai club.
Le dichiarazioni d’intenti si erano intuite nei primi due singoli, My Number e Inhaler: il primo ha stampato il marchio di fabbrica dei primi Foals, meravigliosamente sorretto da chitarre fusion e ritmi sincopati, il secondo sorprende per l’uso inedito delle distorsioni (su tutti un muscoloso bridge di zeppeliniana memoria) e la maggiore attitudine melodica del cantato. L’evoluzione di Philippakis è vocale ma anche formale: i versi che finora erano parsi criptici e introspettivi (pensate a “The French Open” o “Two Steps Twice”), si aprono ora a temi come amicizia e amore, lontananza, maturità e decadenza morale, in un sussurrato che cresce con i brani di cui delinea le forme.
Dopo l’iniziale Prelude, in cui è la parte strumentale a farla da padrona, le maggiori emozioni arrivano quando l’incedere dapprima lento si dilata grazie a onnipresenti tappeti sonori ed una impressionante sezione ritmica. La produzione di Flood e Alan Moulder è discreta ma determinante, in particolare nelle monumentali Bad Habit e Milk & Black Spiders (rette entrambe da una orientaleggiante pioggia di tastiere).
Un altro episodio da sottolineare è la metropolitana Providence, che nel suo caos organizzato mantiene il filo logico di “Blue Blood”, in cui il “you got blood on your hands, I think it’s my own” si traduce in un più conscio “Oh I’ll bleed just a little bit too, Oh I’ll bleed just like you”. Gli immancabili delay in crescendo e un’onnivora batteria concorrono a far esplodere questo potenziale inno per le folle dei festival estivi.
Al contrario Stepson e la tribale Late Night, i due brani meno rappresentativi dell’album, appaiono solo abbozzate e non decollano, quasi volessero volontariamente rimanere in secondo piano, lasciando la sensazione di essere riusciti solo in parte.
Moon invece è il finale perfetto, una filastrocca consolante dal sapore cinematografico costruita su armonici di chitarra lievi e fumosi, in cui Philippakis si congeda con i versi: “And all by the fooling round with daisy chains on our heads / it is coming now, my friend, and it’s the end”.
Pare dunque che il quintetto di Oxford non abbia voluto correggere la rotta, ma piuttosto sintetizzare i primi due album senza sconvolgerne il risultato finale. Certamente non un salto nel buio, né una spasmodica ricerca della novità a tutti i costi, quanto piuttosto un affinamento dell’enorme potenziale compositivo finora espresso, certamente un disco della maturità. L’ambizione aggressiva di “Antidotes” e l’anima melanconica di “Total Life Forever” si alternano senza mai confondersi, e l’ampio respiro compositivo di Holy Fire conferma i Foals come una delle migliori band britanniche degli ultimi anni.
Tracklist:
1 Prelude
2 Inhaler
3 My Number
4 Bad Habit
5 Everytime
6 Late Night
7 Out of the Woods
8 Milk & Black Spiders
9 Providence
10 Stepson
11 Moon
Line-up:
Yannis Philippakis – vocals, guitar
Jimmy Smith – guitar
Walter Gervers – bass, backing vocals
Edwin Congreave – keyboards, backing vocals
Jack Bevan – drums