Anche se il progressive non è certo il genere più trattato su queste pagine, ritengo ugualmente doveroso ricordare la figura di uno dei musicisti italiani più importanti di sempre, Francesco Di Giacomo, scomparso tragicamente qualche giorno fa.
Ai più giovani forse questo nome potrà dire poco o nulla e sarebbe un vero peccato, perché, al di là delle suddivisioni stilistiche o dei gusti personali, il Banco del Mutuo Soccorso, la band della quale Di Giacomo è stato il cantante per oltre quarant’anni, resta uno dei nomi maggiormente venerati fuori dai nostri confini.
Il Banco fu, infatti, una delle punte di diamante del prog italiano, movimento che ebbe il suo massimo impulso all’inizio degli anni settanta e citato ancor oggi come fonte di ispirazione da musicisti di qualsiasi estrazione geografica e stilistica.
Gruppi come la PFM, Le Orme, Il Balletto di Bronzo, Il Rovescio della Medaglia, i New Trolls, gli Osanna, e ne tralascio sicuramente altrettanti, ognuno con le proprie peculiarità, dettero vita ad uno dei momenti più esaltanti che la nostra bistrattata nazione abbia mai vissuto in campo musicale negli ultimi cinquant’anni.
Il fatto d’aver potuto goderne quasi in tempo reale mi lega inevitabilmente a doppio filo a tutti i protagonisti di quell’epoca ma certamente la musica del Banco è stata quella capace di regalarmi le emozioni più forti.
La voce particolare di Francesco Di Giacomo, con la sua intonazione tenorile, era lo strumento perfetto capace di rendere uniche le partiture dei fratelli Nocenzi. La sua immagine agli antipodi della rock star era emblematica di una band che ha sempre mantenuto un profilo piuttosto riservato e che, dopo diversi anni di silenzio, aveva ripreso a calcare i palchi continuando a regalare agli appassionati momenti impagabili.
Nel 2012 ebbi la fortuna di assistere all’esibizione del Banco nello splendido scenario di Villa Serra di Manesseno, appena fuori Genova: Di Giacomo e Vittorio Nocenzi, unici rappresentanti del nucleo originario, deliziarono i presenti con la loro classe ed il piacere di elargire loro una volta di più le perle di una lunga ed inimitabile carriera.
La voce del cantante, dopo oltre quarant’anni di concerti, aveva perso poco o nulla della sua carica evocativa e, all’epoca, mi venne spontaneo il parallelismo con un’altro grande vecchio del rock, quel Ronnie James Dio, scomparso nel 2010 e capace, finché era rimasto in vita, di mettere in riga una pletora di cantanti che sarebbero potuti esserne i nipoti, continuando a calcare il palco ad un’età nella quale solo i più grandi non corrono il rischio di cadere nel patetico.
Sarebbe riduttivo condensare la carriera di un artista in un solo album o, addirittura, in una sola canzone, ma è fuor di dubbio che un disco come “Darwin”, innovativo a livello musicale quanto coraggioso dal punto di vista concettuale, resta uno dei capolavori ineguagliati della nostra musica, così come il brano che più di altri ne delinea la grandezza, “750.000 Anni Fa … L’Amore”, magico connubio tra poesia e musica, capace sempre di commuovere ad ogni ascolto con il suo toccante lirismo.
Probabilmente chi non ha mai ascoltato questa gemma della musica italiana non ha neppure cominciato a leggere l’articolo; chi, invece, l’avesse fatto ugualmente, mosso dalla curiosità, è sempre in tempo per colmare tale lacuna: infatti l’Arte (quella con la A maiuscola) esula da ogni cognizione temporale consegnandosi all’immortalità e la stessa sorte tocca a chi nè stato, in vita, contemporaneamente artefice e tramite.
“Non mi svegliate ve ne prego
ma lasciate che io dorma questo sonno,
c’è ancora tempo per il giorno
quando gli occhi si imbevono di pianto,
i miei occhi… di pianto”.