” Costruimmo questa tavola, ma non andava bene per noi, scoprimmo che era pericolosa e alla fine si ruppe. E’ impossibile costruire una tavola a Gaza, perché le tavole da surf hanno bisogno di un tipo particolare di schiuma e fibre che non sono reperibili a Gaza. Abbiamo ricevuto 24 tavole attraverso la California, grazie a Matthew, ma sono state confiscate per due anni da Israele. Ma poi sono entrate.”
Sono le parole pronunciate da Ahmed Abo Hassira in una scena del film Gaza Surf Club mostrando la tavola di legno che lui e Abo-Jayab avevano ideato e poi costruito molti anni prima grazie all’aiuto del fratello carpentiere di Ahmed. Nella scena successiva ci fa vedere una tavola con uno squalo disegnato sopra, dice che tiene molto a quella tavola, è la prima che ha comprato, di seconda mano, da Israele. “L’ho usata per nove anni e condivisa con Mohammed Abo Jayab”, il suo caro amico fin dall’adolescenza.
Loro sono i pionieri del Surf a Gaza.
Ahmed è papà di Mena e Mahmoud. Ahmed è lo zio di Mohammed Abo-Hassira a cui ha trasmesso la passione per il surf, insegnando a surfare a lui e a moltissimi altri ragazzi della Striscia. Ahmed è una figura importante non solo per la comunità surf, con il suo lavoro di bagnino d’estate e soccorritore d’inverno, è un punto di riferimento.
Ahmed è martire. Martedì 17 settembre è arrivata la triste notizia. La comunità tutta è sconvolta. I figli disperati, il nipote Mohammed è scioccato. Personalmente la notizia mi ha lasciata senza parole. Ho voluto credere per tutto questo tempo che fosse stato fatto prigioniero e che poi lo avrebbero liberato, e un po’ malconcio, ma vivo, sarebbe arrivato a Gaza ad abbracciare di nuovo i suoi cari. Abbiamo perso una figura importante, un pioniere del surf in una zona da sempre difficile. Aveva ancora tanto da raccontare, da trasmettere, specialmente a noi, che in quella terra non ci siamo mai stati, ma con la quale condividiamo lo stesso mare e sentiamo lo stesso profumo di salsedine.
Questa triste notizia porta con sé tanta rabbia.
E’ passato un anno, dodici interminabili mesi. Ogni giorno da quel sabato di ottobre, le forze di occupazione israeliane non si sono mai fermate. Non contano i sei giorni di tregua di fine novembre, nei quali non è stata attaccata Gaza, ma hanno continuato a reprimere la popolazione nelle terre occupate di West Bank.
Mentre scrivo queste parole leggo il resoconto delle ultime 24 ore. 40 martiri, 58 feriti e un certo numero di vittime sono ancora sotto le macerie e nelle strade, troppo difficile raggiungerli con le ambulanze per le squadre di soccorso.
Sta piovendo a Gaza. Le strade che non esistono più sono fiumi di fango. Le tende, diventate case per centinaia e centinaia di famiglie, sono spazi invivibili. Non solo perché posizionate nella sabbia rendono difficile il drenaggio dell’acqua quando piove, non solo per via delle temperature che iniziano a farsi sempre più fredde e non ci sono vestiti caldi per affrontare l’imminente inverno. Stanchezza è la parola che mi ripetono tutti da Gaza. Sono esausti. Lo sento dalle loro parole e lo possiamo vedere tutti dai loro volti, da quelli dei loro bambini che spesso sono i protagonisti di video di richieste d’aiuto. Uno dei pochi mezzi che hanno per racimolare qualche soldo.
Anche i surfisti che conosco della Striscia si trovano sfollati nelle tende. I video che mi inviano mostrano condizioni disperate. Bisogna però fermarsi un secondo. Spesso nell’immaginario occidentale, non abbiamo chiara una cosa fondamentale. Questi ragazzi prima dell’offensiva israeliana, conducevano una vita che è difficile definire normale per via dell’assedio, dell’embargo e di tutte le conseguenze causate da tutto questo, ma in qualche modo lo era. Chi aveva due grandi negozi di vestiti, chi studiava in università, chi faceva la mamma a tempo pieno, chi lavorava e voleva diventare un surfista professionista e viaggiare. Non abituiamoci mai alle immagini da Gaza, non facciamo l’errore di mettere tra noi e loro una distanza. La cultura, gli usi e i costumi possono anche essere differenti, ma non certo l’umanità.
In tenda qualsiasi cosa, come cucinare quel poco che riescono a trovare, diventa un’impresa che occupa tutta la giornata e richiede molta attenzione. Diverse donne hanno riportato ustioni alle mani e polsi per via dei mezzi usati. Di solito un fornello da campo o un cumulo di legna sul quale appoggiare una pentola, diventano cucina. Un’altra cosa sconvolgente che sta accadendo ormai da mesi, riguarda i prezzi dei beni di prima necessità.
Un chilo di latte in polvere 46.50$
Una confezione di pannolini 80$
Un sacco di farina da 25 kg 100$
Una saponetta 7$
Un chilo di pomodori 54.60$
Un chilo di melanzane 15$
Un chilo di zucchero 33$
E così via. Il mercato nero.
Quando hanno dovuto lasciare casa per evacuare verso sud, hanno portato con sé poche cose. Chi è riuscito a spostarsi con la propria macchina, ha cercato di riempirla il più possibile. Altri invece si sono spostati da nord a sud a piedi, portando sulle spalle, letteralmente, la propria vita. Ma sempre con l’idea che sarebbero tornati presto. Come racconta la mia amica Lama Abed, vent’anni, che proprio il 25 settembre 2024 ha tenuto un discorso al Congresso americano in quanto sopravvissuta. Negli Stati Uniti ha raccontato la sua vita prima e durante il genocidio. Sottolineando che in pochi minuti ha dovuto prendere la decisione di lasciare la propria casa con la convinzione che in due, al massimo tre settimane sarebbe tornata. Da studentessa universitaria di economia si è trovata la propria vita stravolta, ma non ha esitato a mettersi a disposizione e preparare cibo per gli sfollati come lei nei campi a Rafah. Lama è riuscita a raggiungere l’Egitto con parte della sua famiglia attraverso il valico di Rafah. Si è salvata grazie alla raccolta fondi che ha aperto, riuscendo così a raggiungere la somma necessaria per poter evacuare. Anche se lei ora è in salvo, ha perso ogni cosa che le apparteneva, ogni ricordo. Come tutti a Gaza. Quella maglia preferita, quella coperta regalata, quella collanina d’oro. Tutto. Penso sempre alle fotografie, per me così importanti per ricordare, per sentire di nuovo un profumo, una voce, un pezzo di vita. Non c’è più niente.
Nulla è stato fatto, nessun passo in avanti è stato compiuto dai governi di tutto il mondo per fermare concretamente questo massacro. Secondo il Ministro della Sanità, oggi, 361esimo giorno dell’aggressione sionista, si contano 41,638 martiri e 96,460 feriti dal 7 ottobre.
Secondo una stima pubblicata il 5 luglio sulla rivista scientifica inglese The Lancet, tre studiosi di salute pubblica hanno affermato che, se anche la guerra di Israele su Gaza finisse adesso, gli attuali (di luglio) 37.400 morti ufficialmente registrati andrebbero moltiplicati per cinque, raggiungendo la vertiginosa cifra di 186.000 morti.
La violenza che Israele attua nei confronti del popolo palestinese non è solo fisica. Non si limitano a compiere assassinii e stragi ogni giorno, colpendo case, famiglie, scuole, strade, mercati e tende. Non solo vengono portati alla fame fermando gli aiuti umanitari al confine, non solo sequestrano uomini, donne, anziani e bambini.
Ad Israele questo non basta, il loro obiettivo è eliminare anche qualsiasi collegamento esterno, qualsiasi àncora di salvezza.
Nel 2023 è entrato in vigore il Digital Services Act, la Normativa sui servizi digitali, un regolamento dell’Unione europea che si concentra sull’importanza delle piattaforme social nell’ecosistema dell’informazione.
Il regolamento riconosce infatti che le piattaforme «influenzano fortemente la sicurezza online, la definizione del dibattito e dell’opinione pubblica» , perciò impone loro di prevenire «effetti negativi, attuali o prevedibili per l’esercizio dei diritti fondamentali, in particolare la libertà di espressione e di informazione, inclusi la libertà e il pluralismo dei media, sanciti nell’articolo 11 della Carta» nonché «gli effetti sui processi democratici, sul dibattito civico e sui processi elettorali, nonché sulla sicurezza pubblica»
Dal 28 aprile l’algoritmo di Instagram ha ridotto la visibilità dei contenuti politici basandosi sul numero di “Mi Piace”. Secondo Taylor Lorenz e Naomi Nix del Washington Post le limitazioni sono applicate sugli account più che sui singoli post, penalizzando coloro i quali condividono spesso post politicamente orientati interferendo proprio con la libertà di espressione e di informazione.
Centinaia e centinaia di famiglie a Gaza da dicembre 2023 hanno iniziato ad aprire raccolte fondi tramite diverse piattaforme. La più utilizzata è GoFundMe, piattaforma online statunitense di crowdfunding. Fino al 6 maggio le raccolte fondi servivano per due scopi principali. Da una parte c’era chi non ha mai pensato di lasciare la Striscia, ma avendo perso tutto aveva bisogno di denaro per affrontare le spese di vita quotidiane. Dall’altra parte c’era chi aveva deciso di lasciare Gaza, ma senza più reddito, necessitava racimolare denaro per poter pagare le spese di evacuazione. Una scelta difficile e dolorosa, ma anche molto cara. L’agenzia egiziana Hala Consulting and Tourism Services del magnate Ibrahim Al Organi si è occupata della gestione dei visti e dei trasferimenti. Intorno a gennaio la cifra richiesta per ogni persona oscillava dai 7 mila dollari ai 10 mila, da marzo la cifra si è man mano stabilizzata, arrivando a 5mila dollari per adulti e 2.500 per i bambini sotto i 16 anni. Secondo le stime di Middle East Eye, l’agenzia avrebbe guadagnato circa 2 milioni di dollari al giorno, per un totale di quasi mezzo miliardo dal 7 ottobre.
Dopo la chiusura del valico di Rafah anche l’agenzia ha chiuso gli sportelli per la Palestina. La storia di Marah e Omar è emblematica di questo momento. Lei in Belgio dal 2021 non è mai riuscita a ottenere il ricongiungimento famigliare con il marito Omar a Gaza. Il 28 dicembre 2023 Marah apre la raccolta fondi. Agli inizi di maggio la cifra miracolosamente sale e raggiunge il primo obiettivo, 5 mila dollari. Lei registra subito il marito all’agenzia. Ci vorrà un mese prima che possa uscire, le dicono, ma è in lista e questo è ciò che conta. Tre giorni dopo chiudono il valico e le forza di occupazione israeliane distruggono fisicamente il passaggio alla libertà.
Come ho scoperto della raccolta fondi di Marah e Omar? Semplice, grazie a Instagram. Così ho conosciuto moltissime altre storie, e tra queste quelle dei nostri surfisti.
In un anno non ho mai smesso di parlare di Palestina. Nel corso dei mesi il mio account ha subito molte restrizioni, buttandomi nell’oblio per settimane per aver usato le parole Gaza, Palestina, genocidio, bombardamento, sterminio, per dirne alcune, o per aver condiviso un reel esplicito.
La censura attuata da Meta è feroce. Nel corso di questo anno mi sono accorta di come, specialmente nei mesi estivi, la violenza dell’IOF su Gaza si sia fatta più efferata in modo particolare il sabato, giorno di festa per gli ebrei, quindi per gli israeliani. Contemporaneamente Meta attuava una vera e propria censura sugli account di migliaia di persone in tutto il mondo che riportavano, attraverso le storie di instagram o post, le notizie dei massacri compiuti da Israele in quel giorno, Shabbat. Letteralmente “lo smettere”. La Halakhah, la legge ebraica, vieta al popolo ebraico lo svolgimento di qualsiasi forma di melachah, di lavoro. Non inteso come ciò che normalmente viene chiamato lavoro, ma si riferisce a 39 attività che il Talmud vieta di svolgere agli Ebrei. Compiere un genocidio non è tra le 39 attività vietate.
Mark Zuckerberg, presidente e amministratore delegato di Meta, dichiara di essere stato sottoposto nel 2019 a pressioni dal governo degli Stati Uniti affinché censurasse i contenuti relativi al Coronavirus durante la pandemia, e si è detto – rammaricato – per la decisione dell’azienda di assecondare le richieste dell’amministrazione Biden.
Chissà se tra qualche anno si sentirà di nuovo rammaricato per aver censurato e in molti casi chiuso profili di utenti che parlano di Palestina. Ma ancor più grave, profili di utenti che si trovano a Gaza, e hanno come unico mezzo per far conoscere al mondo intero la propria storia, il suo social media.
Instagram nello specifico è ad oggi l’unico mezzo dal quale poter ottenere una vera informazione. Certo, ci sono errori e sicuramente fake news, ma la velocità con la quale le notizie girano, ci permette di capire in poco tempo la verità dei fatti.
Quello che condividiamo non è solo la storia di una famiglia, non è l’esigenza di un singolo, ma di un’intera comunità. E’ un pezzo di storia che i nostri figli studieranno come noi ne abbiamo studiate tante altre, e forse ingenui, pensavamo di non dovervi assistere. E invece siamo di fronte ad una delle catastrofi peggiori mai viste, resa tale proprio perché ben documentata da chi la sta vivendo. L’ennesima prova che questo nostro sistema non sta funzionando.
Nessun media tradizionale racconta che in Germania è stato arrestato un bambino per aver sventolato una bandiera palestinese in una manifestazione pro Palestina. Un bambino, inseguito e circondato, portato via come se fosse stato il peggiore degli assassini. Nessuna rete televisiva italiana manda in onda il premier israeliano Netanyahu che mostra in una mappa digitale il loro progetto della futura Israele, nella quale non esiste la Cisgiordania occupata. Nessuna rete di Stato manda in onda i discorsi di Daniella Weiss, che non ha mai fatto mistero dell’obiettivo di invadere e creare insediamenti in Libano, Siria, Iran e Iraq. Nessun giornalista all’ora di cena ci ha informato che il Ministero della Salute di Gaza, ha pubblicato un documento composto da 649 pagine con nome, età, sesso e numero di carta di identità dei cittadini palestinesi uccisi dal 7 Ottobre al 31 Agosto e che nelle prime quattordici pagine sono segnati bambini al di sotto del primo anno di età.
Nessuna esitazione a chiamare invasione quella della Russia in Ucraina, nessun dubbio. Pochi giorni fa Israele ha invaso il Libano, uno stato sovrano invaso da un altro stato sovrano. La stampa nazionale e internazionale però utilizza i termini raid, incursioni, operazioni. Un evidente doppio standard di comunicazione. Come se ci fossero categorie di vittime più o meno importanti a seconda della loro nazionalità o provenienza.
Questo è il link alle raccolte fondi che sostengo se volete contribuire ad aiutare https://linktr.ee/summerkahlo
Sono disponibile per qualsiasi domanda o informazione
LEGGI TUTTE LE PUNTATE DI GAZA SURF CHRONICLES Ep5
AGGIORNAMENTI A GAZA
Nell’ultimo anno, sono stati commessi 3.654 massacri da parte di Israele, con oltre 51.870 martiri e persone scomparse.
902 famiglie sono state cancellate dall’anagrafe e 36 sono state martirizzate dalla fame.
986 martiri erano personale medico,178 giornalisti e 85 ufficiali della difesa civile.
2.300 sono i corpi rubati dall’esercito di occupazione da 19 cimiteri su 60.
149.036 abitanti di Gaza sono martirizzati, feriti o dispersi, il 69% dei quali bambini e donne.
187 rifugi per sfollati sono stati presi di mira, di cui 27 negli ultimi due giorni.
462 scuole e università sono state distrutte dall’occupazione, 12.700 martiri erano studenti, mentre 750 erano insegnanti e 130 scienziati e accademici.
34 ospedali, oltre 200 centri sanitari sono stati messi fuori servizio e 131 ambulanze sono state prese di mira.
Su 1.245 moschee, 815 sono state distrutte, oltre a tre chiese.
200.000 unità abitative sono state distrutte utilizzando 85.000 tonnellate di esplosivo, equivalenti a sei bombe su Hiroshima.
3.130 km di reti elettriche sono state distrutte, 330.000 metri di reti idriche, 655.000 metri di reti fognarie e 2.835.000 metri di reti stradali e di viabilità.
L’86% della Striscia di Gaza è stato distrutto.