“Giochi «ringhistici». Perché il professional wrestling è il gioco per eccellenza” Andrea Corona: 90 pp. brossura, prezzo di copertina €10,00 [Edizioni Kimerik, 2009].
La mia generazione ha scoperto il wrestling tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta, grazie alle telecronache dell’ineffabile Dan Peterson, quando i lottatori che si sfidavano nelle prime Wrestlemanie si chiamavano Hulk Hogan, André the Giant, The Ultimate Warrior o “Macho Man” Randy Savage.
Noi imberbi spettatori, che assistevamo con entusiasmo e trepidazione a quegli epici incontri, non avremmo mai potuto immaginare che era tutto finto, che la condotta e l’esito di ogni combattimento era già stata concordata per contratto prima dell’incontro. Credevamo che Hulk Hogan vincesse in maniera pulita tutti i suoi match, così com’eravamo convinti che Babbo Natale ci avrebbe portato i regali scendendo dal caminetto.
Per i più sadici poi, le tv locali trasmettevano anche gli incontri di catch giapponese, più violenti del pro wrestling ma ugualmente finti, dove gli eroi erano gli esotici Antonio Inoki o Tiger Mask, e sembrava di assistere a una puntata dell’Uomo Tigre in live action.
E come dimenticare le surreali telecronache di Tony Fusaro, inviato fasullo da Tokyo, che inventava tutto di sana pianta (un po’ come i Gialappa’s in Mai Dire Banzai)? In più il catch aveva anche i suoi incontri femminili, dove la bella e fragile Mimi Hagiwara batteva immancabilmente le perfide Devil Masami o Monster Ripper (per noi italiani Monster Lippa…).
Non sono mai riuscito invece ad appassionarmi al wrestling contemporaneo di Rey Mysterio o del povero Eddie Guerrero, con i suoi lottatori iper-pompati di testosterone e dove tutto è così curato nei minimi particolari che sembra finto all’ennesima potenza, o forse sono semplicemente cresciuto e non riesco più a credere in Babbo Natale.
Ma veniamo al libro di Andrea Corona (1982), giovane filosofo partenopeo. Giochi ringhistici nasce, infatti, come tesi di laurea in Teoria dei Linguaggi, ed esamina in maniera originale il wrestling professionistico, ispirandosi a filosofi come Barthes o Deleuze, Wittgenstein o Huizinga.
La tesi del libro è che il pro wrestling è il gioco per eccellenza, in quanto fondato su storie scritte a tavolino (storylines), che non sono né completamente false né completamente vere, visto che lo show prosegue anche al di fuori del ring e la finzione finisce per intrecciarsi indissolubilmente con la vita privata dei lottatori, tenuti al mantenimento del segreto professionale (kayfabe). Essi non potranno mai rivelare i reali rapporti di amicizia o parentela e dovranno sempre attenersi alla loro maschera e al copione prestabilito, con le sue faide e i suoi calcolatissimi colpi di scena.
Lungi dall’essere una disciplina sportiva, il wrestling è quindi piuttosto uno spettacolo, le cui origini possono rintracciarsi da un lato nella tragedia greca e nella commedia dell’arte e dall’altro nei giochi gladiatori dell’antica Roma, anch’essi non di rado posticci.
In definitiva, Giochi Ringhistici è un agile saggio, che illumina gli aspetti meno conosciuti del wrestling e fornisce non pochi spunti di riflessione al lettore appassionato o al semplice curioso, che vuole vedere cosa si nasconde dietro la patina luccicante di questo mondo.