Tra i tanti volumi dedicati al fenomeno ultrà, questo di Merlicco merita molta attenzione. Oltre ad una lettura accurata. “Una passione balcanica. Calcio e politica nell’ex Jugoslavia dall’era socialista ai giorni nostri”, recentemente pubblicato da Besamuci Edizioni, è un testo che ci sentiamo di consigliare a tutti. Indipendentemente dal fatto che abbiano frequentato le curve degli stadi delle proprie città, o ancora le frequentino. Non è e non deve esser visto come un libro indirizzato a chi si interessa di calcio in modo maniacale. Non è l’ennesimo libro sul calcio, ma un trattato storico sociale che racconta la storia recente di una terra inquieta, che ha visto e vissuto eventi tristemente passati alla storia.
Convinto che la storia si scriva attraverso le contaminazioni e non con l’isolamento, ho sempre guardato alla Jugoslavia come a un paese estremamente affascinante. Un paese da cui ci separano per via mare solo poche miglia, ma che è lontanissimo da noi, sotto il profilo storico e come tradizioni. Un paese figlio di un passato legato all’adesione a un modello di sviluppo “orientale” che ha scelto, tra i tanti elementi di rottura, la sottocultura legata ai movimenti ultrà. Grazie al calcio, e alle gesta dei settori più caldi e intransigenti degli stadi balcanici, si sono diffusi, in risposta all’autoritarismo statale filosovietico, tutta una serie di sentimenti indipendisti dalla forte connotazione ultranazionalista.
Non poteva essere altrimenti. Come accadde quasi parallelamente nell’ex URSS, con l’ascesa inarrestabile di movimenti neonazisti (legati tanto al calcio quanto alla musica) come risposta immediata e irrazionale ad anni di dittatura “comunista”. Il nazionalismo dunque, come strumento identitario che potesse permettere di ottenere nuovamente quella dignità da troppo tempo negata in una terra ricca di contrasti, non solo etnici, ma anche culturali e non ultimo religiosi.
“Una passione balcanica. Calcio e politica nell’ex Jugoslavia dall’era socialista ai giorni nostri” prende lo spunto dal calcio per parlare di storia. Merlicco è bravissimo a ricostruire date, eventi, dettagli e chiavi di lettura inedite di una popolazione eterogenea che ha sostituito con la guerra senza quartiere degli stadi anni di passività sociale. È stato tutto un susseguirsi di scontri, in nome di un odio sempre sopito, tenuto sotto le braci ardenti, che ha dato inevitabilmente il via a tutte quelle divisioni etnico religiose che erano ben presenti ma che il regime di Tito teneva a freno.
L’argomento centrale del volume verte intorno alla domanda che per anni tutti ci siamo posti: gli eventi allo stadio Maksimir di Zagabria nel Maggio del 1990, tra gli ultras della Dinamo e quelli della Stella Rossa Belgrado, sono da individuare come il prodromo che ha dato il via alla guerra civile nel Balcani? Crediamo che si sarebbe arrivati alla guerra in ogni caso, questa per lo meno è l’idea che abbiamo sempre avuto, e che le parole di Merlicco hanno rafforzato in noi. Di certo, la spinta degli scontri tra ultrà ha dato una mano, non fosse altro che per la visibilità mediatica degli eventi, sfruttata da entrambe le parti per giustificare le proprie posizioni. Ma sarebbe riduttivo fermarsi a questa chiave di lettura.
Una delle peculiarità del testo è quella di andare a riscrivere gli eventi, prescindendo dalle ricostruzioni parziali, e di parte, andate finora in archivio. Grazie ad una documentazione capillare Merlicco riesce a rivelare tutta una serie di particolari tutt’altro che secondari, che ci permettono di leggere gli eventi sotto una nuova veste. L’esempio più eclatante è quello legato alla figura di di Željko Ražnatović, meglio noto come Arkan, figura storica che esce decisamente ridimensionata sulle pagine del libro.
Ražnatović non è stato per nulla un eroe, come si è sempre tentato di far passare, ma un criminale come tanti, che ha capito di poter trarre vantaggio dagli scontri etnici, spacciandosi per tifoso di una squadra che in realtà non aveva mai seguito più di tanto. Un delinquente abituale che ha fiutato la possibilità di allargare i propri business attraverso la guerra.
Un assassino che non ha guardato in faccia a nulla e a nessuno, al punto di riuscire a stare su due fronti. Da un lato filmava le sue milizie serbe durante i rastrellamenti, e dall’altro rivendeva le stesse immagini ai croati, in modo da fomentare l’odio reciproco, e garantendosi, tramite la prosecuzione della guerra, le proprie entrate e il proprio potere.
Ma non solo. Ražnatović non era per nulla il capo degli ultrà della Stella Rossa. Nella partita del maggio 1990 non era sugli spalti durante gli scontri, ma comodamente seduto sulla panchina della Stella Rossa insieme ai calciatori. Anche perché la sua milizia, passata tristemente alla storia, in quel periodo non era neppure nata. Sarebbe infatti sorta sei mesi dopo nell’ottobre dello stesso anno.
Il grande rammarico di chi ama lo sport, sta nel vedere una nazione che ha dato i natali ad una serie infinita di campioni nelle più svariate discipline (calcio, basket, pallanuoto) morire per implosione. Impedendo agli atleti di ottenere i riconoscimenti cui sarebbero senza alcun dubbio andati incontro. Uniche vette di quegli anni a cavallo tra gli ottanta e i novanta, la conquista della Coppa dei Campioni di calcio con la Stella Rossa di Belgrado nel 1991, le quattro Eurolega di basket (tre per Spalato e una per Belgrado), i mondiali di Basket del 1990 conquistati dal quintetto jugoslavo (l’ultima partecipazione unitaria prima della scissione della Croatia).
Restando sul movimento ultrà, chiave di lettura del testo, emerge un disegno che li vide coinvolti ben oltre quelle che erano le loro idee e intenzioni. Forti di un odio etnico mai sopito, le curve balcaniche vennero sfruttate come polveriere per far detonare il conflitto. Per quello che riguarda gli ultrà slavi si trattava per la maggior parte di generazioni figlie della fame e della povertà che trovarono nell’aggregazione da stadio l’unica strada per potersi sentire finalmente parte di qualcosa, orgogliosi delle proprie radici, che fino a quel momento non avevano fatto altro che togliere loro qualcosa invece di darglielo. E che guardavano all’insubordinazione e alla ribellione sociale come unica strada possibile per uscire dall’anonimato alienante della nazione jugoslava, inquadrata rigidamente sotto il peso di un modello statale e sociale rigido e opprimente. Esplose tutto, da un giorno all’altro, con la conseguenza che le partite di club, anche quelle amichevoli, o apparentemente di poco interesse, divennero scontri tra nazioni a tutti gli effetti, caratterizzati dall”esposizione di simboli nazionali per scatenare provocazioni da un punto di vista etnico e religioso.
Un volume interessantissimo, che racconta la storia da un diverso punto di vista