A Zurigo un politico commette un omicidio davanti agli occhi di tutti e, una volta incarcerato, ingaggia un detective squattrinato per dimostrare che non ha commesso quel delitto.
Perché lo fa?
Primo, per vendicare un grave torto; secondo, perché lo stuzzica l’idea di negare l’evidenza. Comunque stiano le cose, questo “giallo” del 1985 è una festa della suspense, del grottesco. Il titolo vuole dire l’esatto contrario; perché, come fa notare Dürrenmatt, non è data giustizia umana se il mondo è governato dal caso, e se i tentativi terreni di darsi un ordine sfociano in un’ultima banale violenza.
Potrete leggere passaggi come questi:
- Chi ha molto teme di perdere molto.
- Il nostro penitenziario: con la macchina si può raggiungere in venti minuti circa. (…) le condizioni di salute dei residenti sono ottime, la vita monastica, regolare, la luce spenta presto, il cibo semplice operano veri e propri miracoli. (…) la vita si svolge con ritmo lento e regolare, ti tengono e ti mantengono con sobrietà, ti danno la pagella, la buona condotta vale la pena, ti allevia la detenzione, naturalmente solo se da scontare hai una decina d’anni o meno ancora, in questo caso conviene essere educati. (…) in complesso ognuno lì diventa virtuoso; pezzi grossi caduti in basso, che hanno perso cariche e impieghi, ricominciano a sperare, degli assassini si dedicano all’antroposofia, chi fornicava e praticava l’incesto adesso coltiva aspirazioni spirituali. S’incollano sacchetti, s’intrecciano cesti, si rilegano libri, si stampano brossure, nella sartoria si fanno confezionare abiti su misura persino i consiglieri del governo; inoltre si diffonde per l’edificio un caldo profumo di pane, la panetteria è famosa, i suoi panini con salsicce mirabili (le salsicce sono fornite dall’esterno), se si è solerti e cortesi ci si può meritare pappagalli, piccioni, apparecchi radio, per l’istruzione superiore ci sono le scuole serali, e non senza invidia può balenare l’idea, lo si capisce d’un tratto, che questo è il mondo che funziona, non il nostro.
- (…) i più grandi imbrogli si possono commettere e si commettono solo legalmente (…).
- Quanto alla sua nazionalità, si definiva cittadino del Liechtenstein. Non che significasse un granché, soleva poi spiegare, lo ammetteva, ma almeno non c’era da vergognarsi: rispetto all’attuale situazione del mondo il Liechtenstein era relativamente innocente, a parte il fatto che stampava troppi francobolli e senza contare le sue perdonabili trasgressioni finanziarie; era lo Stato più piccolo e viveva alla grande. Inoltre un cittadino del Liechtenstein non si lasciava sedurre tanto facilmente dalla megalomania di attribuirsi un particolare valore solo per il fatto di essere un cittadino del Liechtenstein, come accadeva per esempio agli americani, ai russi, ai tedeschi, oppure ai francesi, i quali ritenevano a priori che un tedesco o un francese fosse già di per sé un essere superiore. Appartenere a una grande potenza – e per un cittadino del Liechtenstein quasi tutti gli altri Stati non potevano che essere grandi potenze, inclusa persino la Svizzera – causava alle persone in questione un notevole svantaggio psicologico, e cioè il pericolo di cader vittima di una certa ottusità nei rapporti con gli altri. Questo pericolo aumentava a seconda della grandezza di una nazione.
- In quanto socialista, alcuni compagni di partito (…) gli avevano procurato un posto nella sezione giudiziaria della polizia cittadina come consigliere giuridico, e se aveva fatto carriera fino a diventare comandante, non dipendeva certo dalle sue prestazioni brillanti, erano stati gli intrighi della politica a portarlo in alto, e così pure avveniva con le altre istanze dell’apparato giudiziario, non che volesse parlare di corruzione, ma la pretesa della giustizia di rappresentare qualcosa di obiettivo, un insieme di strumenti svincolati da qualsiasi considerazione sociale e da pregiudizi, era lontana da ciò che era in realtà (…).
- (…) non occorre che il papa sia credente.
- (…) cominciai a illustrare i vantaggi dell’orfanotrofio e definii la famiglia un focolaio del crimine, affermando che la felicità familiare eternamente lodata era uno schifo (…).
- Sono un uomo artificiale, generato in un laboratorio modello (l’orfanotrofio, nda), guidato dai princìpi degli educatori e degli psichiatri, che il nostro paese ha prodotto insieme agli orologi di precisione, agli psicofarmaci, al segreto bancario e alla neutralità perenne.
- La politica e l’economia erano soggette alle stesse leggi, quelle della politica di potenza. Questo valeva anche per la guerra. L’economia in particolare era una continuazione della guerra con mezzi diversi. Come c’erano guerre tra gli Stati, c’erano guerre tra i gruppi industriali. Alle guerre civili corrispondevano le lotte interne di potere di un gruppo industriale. Ovunque ci si trovava sempre di fronte alla necessità di escludere altri dal potere o di venirne esclusi.
- (…) la giustizia si regola a seconda delle classi sociali di cui deve giudicare, anche se – soprattutto nei confronti dei più privilegiati – talvolta suole procedere con brutalità eccessiva, per contestare i pregiudizi che ormai ha.
- I Dori, appena spuntati dalla terra e ancora immersi nel fango, pensavano di doversi avventare l’uno sull’altro: così nella realtà anche noi ci avventiamo l’uno sull’altro, in pace o in guerra, appena scampati all’era glaciale, uomini su donne, donne su uomini, uomini su uomini, donne su donne, guidati non dalla ragione, bensì dall’istinto, sviluppatosi per milioni d’anni più della ragione, imperscrutabile nei suoi motivi. Così, mentre minacciamo con bombe atomiche, bombe all’idrogeno e bombe al neutrone, ci teniamo alla larga dal peggio, battendoci pugni sul petto come gorilla per spaventare le altre orde di gorilla, e corriamo il rischio di crepare di quella pace che vogliamo tutelare (…).
Cos’altro aggiungere? Iniziato negli anni ’50, “Giustizia” accompagna l’autore fino all’84, sul finire dei suoi settant’anni.
L’opera traduce a più riprese le sue riflessioni sulle istituzioni umane, sulle pretese giustizialiste di un sistema, quello elvetico, incapace di raggiungere la verità; altra riflessione di Dürrenmatt è che questa incapacità non è un problema politico, bensì un’inefficienza costitutiva, non accidentale, dell’essere umano.
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