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Recensione : Tre dischi d’Agosto di mio gusto che mi auguro incontrino anche il vostro

Tre dischi d'Agosto di mio gusto che mi auguro incontrino anche il vostro: Gutter Cowboys, Scheletro e The Submissives.

Scheletro “Un feto schiacciato senza tre falangi”

2022-Time To Kill Records



Leggo i gobbi dei giornali in questa canicola di inizio agosto.

Si soffoca.

Leggo di coltelli piantati nello stomaco, di rei omicidi che, dopo essersi feriti durante il compimento del loro cruento ufficio, si ricoverano all’ospedale e vengono arrestati, di terribili incidenti autostradali che, più che incidenti, sono vendette per un sorpasso a destra.

Si soffoca.

“Se respirare servisse a qualcosa, l’aria sarebbe vietata”
è il motivetto che mi gira in testa e non mi abbandona e mi torna a mente ogni volta che leggo i gobbi fuori dai giornalai, ogni volta che l’afa non mi fa respirare.

Il giornale non lo compro, per una questione di igiene mentale, per una questione d’amor proprio, ma il motivetto me lo ascolto, eccome se me lo ascolto.

La citazione è da “Se respirare servisse a qualcosa” ed è di un gruppo di Roma chiamato gli Scheletro; sto ascoltando molto il loro 10”, il secondo, in anteprima perché “io so’ io e voi nun sete ‘n cazzo” per dirlo come lo direbbero a Roma.

La recensione mi viene proposta da Massi nel gruppo Telegram di In Your Eyes. Accetto, già l’unico pezzo in anteprima mi aveva esaltato, quindi perché no?
Mi danno subito quello che promettevano: riff alla Slayer, sezione ritmica che non conosce requie e non dà tregua tanto è serrata e spedita; suoni sporchi e selvatici per rendere il tutto meno freddo e più vivo, verace, vissuto ed è, credetemi, una cosa necessaria in questo particolare caso:

casi di cronaca nera scanditi da un cantato verboso ed imponente che ricorda non poco Giulio Baldizzone ai tempi di Misantropo a Senso Unico dei suoi Cripple Bastards.
Mi accendo una sigaretta, seduto nel soggiorno, i pezzi di “Un feto schiacciato senza tre falangi” girano ancora, si confondono coi miei pensieri, le mie preoccupazioni:

penso che la cronaca nera vorrei sentirmela raccontare sempre così, in un racconto a metà tra Slayer, Cripple Bastards ed un film di Umberto Lenzi; butterei giù tutto meglio, mi preoccuperei meno e sorriderei di più, perché gli Scheletro sanno raccontare e in più sanno anche come sdrammatizzare pur rimanendo ferrei e rocciosi:

proprio in “Se respirare servisse a qualcosa “, dopo due pugni nel grugno come “Il vizio di vivere” e “Tre Ave Maria per ogni suo dito” e la nenia perversa di “Prima pagina insanguinata”, si riappropriano dell’arma più potente del popolo romano, lo stornello, e finisci che ti innamori di loro:
questa trovata che mette insieme Punk Hardcore e senso di appartenenza mi convince irrimediabilmente sulla sincerità e la bontà degli Scheletro: sono un gruppo vero, un gruppo onesto.


Non so la loro storia, in quali altre formazioni suonassero o suonino prima o durante di questa nuova esperienza, ma mi immagino già sotto il palco mentre canto con loro
“Solo a Roma Est, in posti come questo: vino bianco e stress è un accollo non richiesto!!!!”.

Il disco scivola via dunque lungo superfici ruvide ed abrasive e quando, all’improvviso, dopo una cavalcata devastante come “Da subdolo a subdolo” (fatevi un guanto di carta vetrata andate allo specchio e prendetevi a schiaffi da soli, così giusto per rendervi conto) in “Un accollo non richiesto” ci si ritrova di fronte ad un rallentamento nel ritornello e sembra quasi di affacciarsi sull’abisso:

il punto di questo disco è proprio questo, nel suo frastuono, nel suo metal, nel suo linguaggio diretto e ed informale riesce a porti di fronte a questioni esistenziali profonde…per questo preferirei davvero un telegiornale fatto, scritto e diretto dagli Scheletro, perché sanno parlare del presente senza cedere alla retorica, lo rappresentano con mano maestra, lo inscenano e lo ricostruiscono su un piano veritiero e, come già detto, oltre che comunicare sanno anche far riflettere.

Dopo l’ennesima corsa al cardiopalmo, rincorsi da un maniaco omicida o forse solo da noi stessi, di “Una matrioska rotta” (squisito il Grind Core spietato, squisito il titolo che sa di Horror Psicologico italiano anni ’70), si va a sbattere sul finale che non è un finale ma è un capolavoro: nel senso che, pur rallentando e facendosi più melodici, gli Scheletro non perdono un’ oncia della loro credibilità.

I suoni sono i soliti, la tragedia umana che lentamente scorre è rappresentata con lo stesso plettro, ma il pezzo è diverso rispetto al resto; non si vergognano, e fanno bene, a cantare pulito, intonato e, così facendo, acuiscono quel senso di miseria, di sconfitta, di dolore che è già presente in quello che la precede ma che qui, in “Ne acceso né spento” si schianta per mostrarsi per quello che è, senza filtri, sguardi da duri a morire, urla disumane;
solo un’umanità talmente umana da diventare fragile e ammalarsi di se stessa.

Mi affaccio alla finestra e vedo il sole che, in questi giorni, non sembra più una componente naturale e necessaria dell’estate, ma un’oscura profezia di siccità e malattia mentale.

Si soffoca.


Gold Dust “Gutter Cowboys-July Demo”

2022-Neutral Archive





Non so se avete presenti i Country Teasers, quel country rock declinato in Garage Punk in psichedelia, in trovate bizzarre e Noise lasciate andare come barchette di carta nel mezzo alla tempesta.

Non so se avete presente i Velvet Underground in “New York Rehearsels-The Factory Broadcast”; quell’attimo preciso in cui, inconsapevoli, i protagonisti di quel loro omonimo debutto del 1967, stavano stendendo, nero su bianco, i versi che li avrebbero descritti come dei miserabili e degli incapaci lì sul momento, ma che li avrebbero resi una leggenda in maniera esponenziale da lì a pochi anni…

Non più se avete presente quell’unico Spaghetti Western girato da Giulio Questi, del 1967, dove un desperado orfano e tradito si ritrova a fronteggiare da solo un villaggio popolato da invasati cristiani; quell’atmosfera tra deserto reale e deserto dello spirito, tra fantasmi personali e sovrastrutture, incubi fatti carne da ingordigia e doppia morale…

Gold Dust “Gutter Cowboys-July Demo”

Non so se ce li avete tutti ben presenti ma, anche se non fosse, non importerebbe quel granché perché, tutto questo, lo potrete trovare in un sol colpo in un solo disco: una demo di un gruppo dello Iowa.

Si, una demo, perché è proprio quando si fa una cosa tanto per farla che i gesti più sensazionali, evocativi, suggestivi prendono una forma così tangibile, così veritiera, che è impossibile non innamorarsene:
perché è quel senso di sospeso, di buttato lì, che ti fa innamorare. È la libertà espressiva regalata dal non sentire il peso di quello che si fa.

Personalmente ascolto questo disco alle due del pomeriggio mentre cammino lungo argini deserti e sotto un sole spietato. Colgo a pieno quel senso di ironica sopravvivenza di cui questo disco è terso; quell’andare avanti a stento nonostante tutto.

Credo sia l’unico modo di ascoltare un disco così per uno come me che non è nato in Iowa (purtroppo o meno male, non lo so, questo non ha importanza).

Chitarre soffocate da pedali Fuzz fanno impazzire i microfoni, i suoni non girano ma esplodono, tutto assume una forma nebbiosa, dove le figure si mescolano, si disfanno e assumono nuove forme.

La voce c’è , la voce non c’è , la voce si allontana; hanno veramente registrato una prova con un Tascam, così, alla come viene viene.

Roba spontanea, di cuore, nessun filtro, premeditazione o studio; gli errori, i rientri, gli orrori, le urla, tutto entra a fare parte integrante della registrazione e tutto pare quasi una testimonianza di un attimo, un momento dove l’immediatezza, l’ispirazione, l’intuizione improvvisa, giocano un ruolo fondamentale:

restituirsi al mondo per quello che si è e non per come si vorrebbe sembrare.

Si potrà anche dire che non è corretto immettere in rete un disco registrato per caso, senza misura, pieno di saturazioni dei microfoni ed errori. Un passo falso che non è giusto spacciare per un’uscita ufficiale.
Per conto mio dischi così vanno bene oltre il concetto di ufficiale, valicano l’idea di disco finito e proiettano verso nuovi orizzonti del DIY.

Un capolavoro? Non saprei ancora dirlo
Una prova di buon approccio alla musica fatta col giusto spirito? Questo lo sottoscrivo senza se e senza ma.


The Submissives “Wanna be Your Thing”

2022-Bruit Direct Disques


Prima di tutto volevo ringraziare Antonio e Daniele che mi hanno fatto riascoltare Trout Mask Replica di Captain Beefheart: se non lo avessi (ri)ascoltato mi sarei messo a recensire questo disco tirando fuori subito i soliti Velvet Underground del terzo disco, i Beat Happening e i Moldy Peaches. Un paio di palle che non ti dico.

Invece, riandandomi ad ascoltare Trout Mask Replica, ora posso dire che:
Partendo da una chiara ispirazione Velvet Underground (prendere il terzo omonimo come riferimento)/Beat Happening/Moldy Peaches, i Submissives riescono ad aggiungerci quel brio destrutturante e selvatico del Captain Beefheart di Trout Mask Replica, donando all’intero insieme più sfumature di suono e colore.
Che ne dite, può andare?

Scopro questo disco, uscito a Giugno, corrente anno, su Bruit Direct Disques, grazie ad un altro disco: Dopamine dei BRAK di Berlino (l’ho recensito per gli EP di Agosto) su Adagio 830.

L’etichetta tedesca è anche un fornitissimo negozio di dischi e, esaltato dall’ascolto dei BRAK, ne prenoto subito una copia e mi metto a curiosare sul loro sito online in cerca di qualche altro titolo per integrare l’ordine con altre perle e ammortizzare meglio le spese di spedizione.

Questi Submissives proprio non li conoscevo e li noto più per il nome che per altro; li cerco e li trovo su Bandcamp e mi do all’ascolto:
strutture scheletriche e registrazione povera, una volontà di esprimere in musica l’inesprimibile in parole con pochi mezzi e molta dissonanza.

Un disco che utilizza chitarre pulite fino all’essenza nuda e cruda, violini dissonanti e percussioni elementari per arrivare al fulcro delle cose, del presente.
La voce è annoiata ma, in un certo qual modo, sensuale:

pare di star seduti in un caffè parigino, bianco e nero, fuori il cielo è plumbeo, la vita scorre ordinaria, lei ordina un Porto, tu la guardi e basta, ti senti come se tutto si stesse dissolvendo. E basta.

The Submissives “Wanna be Your Thing”

Nelle sue strutture sghembe, nel suo continuo litigio tra le componenti che lo animano, questo disco trova una giustificazione nel suo insieme, nel suo risultato finale: per quanto possa sembrare che tutto strida, nella placida, ma al contempo cruenta, collisione delle parti, in realtà tutto torna, tutto si sposa alla perfezione.
Ci si rilassa, ci si lascia andare, ci si lascia assuefare alla corruzione sonora in corso.

La quiete non è vera quiete se non integra in sé il frastuono ed il delirio che la ha preceduta: arriviamo alla tranquillità perché prima siamo passati dalla confusione e solo tramite questo passaggio, capendolo e accettandolo, che riusciamo a riconoscere che, finalmente, siamo arrivati in fondo al tunnel del Chaos.

Anche qui mi pare di poter dire che siamo di fronte ad un disco onesto, fatto con amore e passione per quello che si fa e non per emulazione o volontà di rientrare in uno schema, in una categoria.

Fuori piove,
finalmente.
Piove e c’è il sole
La salvezza integra il disastro.
Perfetto.





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