Gli Hamferð non appartengono alla categoria delle band più prolifiche se è vero che questo ultimo Men Guðs hond er sterk è solo il terzo full length in circa quindici anni di attività, ma ciò conta davvero poco di fronte all’elevata qualità offerta in ogni singola circostanza.
Lo sfolgorante esordio su lunga distanza Evst (2013) aveva portato alla luce una realtà fenomenale nonché unica nel suo genere, per la provenienza geografica, la lingua utilizzata e la presenza dietro il microfono di un fuoriclasse come Jón Aldará, mentre Támsins likam (2018) aveva consolidato la posizione della band faroense ma forse non si trattava del capolavoro che tutti si sarebbero attesi, così sono stati necessari altri sei anni per ascoltare quella che se non è l’opera definitiva degli Hamferð c’è davvero molto vicina.
Se appare superfluo rimarcare quanto l’alternanza tra il growl e la stentorea voce pulita di Aldará sia l’aspetto più identificativo della band, ciò che colpisce in questo nuovo lavoro è la fluidità con cui si passa da aspre partiture death ad aperture melodiche ed epiche sempre condotte dall’ineguagliabile ugola del vocalist.
Rispetto ai lavori precedenti si nota complessivamente una maggiore propensione a brani dai tratti più intimisti, specialità in cui gli Hamferð attuali paiono dare il meglio anche se l’accoppiata iniziale Ábær / Rikin regala dieci minuti abbondanti di death doom melodico comunque inarrivabile per la maggior parte delle band di settore; però la malinconica ed evocativa limpidezza raggiunta in due canzoni come Glæman e Fendreygar sposta il tutto su un piano emotivo e comunicativo di un livello che gli isolani avevano toccato in precedenza con la superba versione acustica di Deyðir varðar, abbinata al maestoso video girato durante l’eclissi solare del 2015.
Il sound della band di Tórshavn è talmente peculiare da sfuggire ad ogni tentativo di sommaria classificazione: il tutto avviene senza il ricorso a chissà quali soluzioni cervellotiche in quanto gli Hamferð mettono il loro smisurato talento al servizio di un lirismo che, oggi, è appannaggio solo di pochi eletti.
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