In questo romanzo Morchio può mettere a disposizione del lettore le sue competenze professionali di psicoterapeuta andando a scavare nella psiche dei personaggi e mettendone a nudo i pensieri più nascosti, le devianze, i meccanismi difensivi, le ferite profonde, ma soprattutto le interazioni e i legami all’interno di questa famiglia di potere, asfittica, piena di ipocrisie e di pregiudizi. Ed è Dolores, la futura moglie del rampollo di casa D’Aste a studiare i nuovi parenti acquisiti come farebbe un antropologo di fronte a un “singolare gruppo umano”, in una ricerca sperimentale che è quasi un tentativo di salvare se stessa dal contagio, svelandone i loschi traffici, le trame, le motivazioni profonde dell’agire, ma ammettendo al tempo stesso di subire il fascino di questa borghesia decadente. In particolare chi tira le fila di tutte le vicende è il capostipite della casa, Edoardo, lo squalo in affari, spietato con i figli e la moglie, eterno adolescente, fragile con la fidanzata del nipote, che rappresenta per lui l’emblema della giovinezza.
E’ proprio il candore, l’intelligenza e l’onestà di Dolores, in concomitanza con la morte della vecchia nonna malata, a scardinare i rapporti tenuti malamente insieme all’interno della famiglia, fino al memorabile pranzo di Natale dove tutte le contraddizioni esplodono mettendo a nudo il disagio di ognuno.
Morchio è abilissimo e impietoso nel smascherare le idiosincrasie della borghesia genovese, attento a trovare ovunque quei segnali, quei particolari che svelano le angosce di un mondo meschino ma invidiato, odiato ma percepito con qualche sottile senso di colpa come pieno di attrattive. Persino l’ambientazione è simbolica, la grande villa sorta al confine tra due mondi, quello dei signori e quello degli operai. E’ un mondo che ha paura della diversità , rappresentata dalla figlia Lena che si è ribellata al mondo paterno fuggendo in India, e da Dolores, da cui la famiglia cerca di difendersi inutilmente, che con la sua arguzia e la volontà di conoscere la realtà smaschera le mistificazioni creando quello scandalo che in realtà è vita e ricerca della verità.
Come una cappa pesante tutti i pensieri, le reazioni, le emozioni sono filtrate dal giudizio, o meglio dal pregiudizio che i personaggi detengono gli uni verso gli altri, tutti verso l’esterno ma anche implacabilmente verso se stessi, che non li abbandona mai, li condiziona, li domina e li rende infelici.
E già dalle prime pagine c’è già tutto: la rabbia, i livori, le incomprensioni, le ambiguità, il risentimento, il perbenismo interessato, l’oppressione del dovere, l’incomunicabilità, l’infelicità coltivata con tenacia da questa cerchia anomala, il cui equilibrio emotivo si manifesta da subito come precario e minacciato.
Ma questa è anche una famiglia che sembra “specchio della follia del mondo”, cui danno voce le insolenti e sgraziate risate dei gabbiani, un mondo in cui l’onorabilità è in realtà lo spregio del valore di cose e persone, espressa con una sensibilità e attenzione al sociale che è sempre stato un tratto distintivo nella scrittura di Morchio. Una scrittura dove le parole e le immagini sono scelte con cura, impeccabili, precise e calzanti alla ricerca della verità.
Da questo romanzo non escono bene le figure maschili, né il vecchio Edoardo, né il debole figlio Meo ma neppure il giovane Francesco, sono le donne a portare a una svolta.
Morchio lascia però nel finale qualcosa di non detto: nella mancata spiegazione del comportamento di Dolores, di cui anche il lettore non viene a conoscenza proprio come Francesco, che si è distratto proprio in quel momento, come di fronte a una Fehlleistung, a un “atto mancato” freudiano, resta qualcosa di irrisolto che costituisce, nel momento che dovrebbe essere risolutivo, un elemento di fascino ma anche un limite.