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Recensione : Il Punk Elettronico Di Alan Vega Tra Passato E Futuro

Il Punk Elettronico Di Alan Vega Tra Passato E Futuro:

Mutator
Suicide: Alan Vega (a sinistra), Martin Rev (a destra). Foto di Ebet Roberts.

New York per Alan Bermowitz, in arte Alan Vega, ha rappresentato spesso un immaginario futuristico e decadente. La musica dei suoi monumentali Suicide ha giocato con trame oscure e causticamente lisergiche, dove quell’urbanità del duo si declina in uno specchio nitido che corrobora quella realtà distorta. I Suicide, formati da Vega e Martin Rev, ha esordito nel 1977 con l’album omonimo, a tutti gli effetti pre-post-punk che aprirà al fulgore della no wave. Martin Rev, unico strumentista e originariamente un musicista free jazz, utilizzava una drum machine progettata originariamente per matrimoni e bar mitzvah, in modo da produrre beat minimali e dal timbro graffiante, mentre Alan Vega, uno scultore che divenne l’asse portante del Project of Living Artists (laboratorio e spazio performativo di SoHo, fondato dal Council of the Arts dello Stato di New York) ha un cantato rockabilly e glaciale allo stesso tempo, caustico nelle parole nichilistiche, che evoca la letteratura di giornaletti dozzinali che lui stesso amava leggere (in primis Ghost Rider, che ispirerà il pezzo omonimo, nonché da un numero della serie deriverà il nome del duo).

In parallelo ai Suicide e ai suoi cinque album, Alan Vega porterà avanti una carriera a suo nome, attraverso un elettronica molto spesso ancor più sonoramente corrosiva e piacevolmente esacerbante, manifestazione di un punk, in senso generale, che supera sé stesso. La sua fiamma vitale cesserà all’età di 78 anni, il 16 Luglio 2016 (era da tempo malato di cuore), lasciando come primo testamento l’album in cantiere in quel periodo, ovvero It, uscito quasi esattamente l’anno dopo. Un secondo step della testimonianza di quella luminosa radiazione di fondo è senz’altro Mutator, uscito quest’ultimo 23 Aprile, attraverso la serie Vega Vault dell’etichetta Sacred Bones Records, in cui saranno incluse altre uscite postume realizzate de facto dallo stesso Vega in vita e dalla moglie Liz Lamere, insieme al produttore Jared Artaud di The Vacant Lots; in realtà Mutator è frutto di un’operazione di riutilizzo di vecchio materiale di Vega non pubblicato in vita, come registrazioni su nastro, outtakes, live performance, scarti di canzoni e altro. Un modo di dare lustro alla sua memoria in nome di un ascolto interessante e caustico in un unicum.

Cover di Mutator (2021).

Il disco si muove su territori elettroacustici minimali, dove prevalgono sonorità sintetiche spettrali e lovecraftiane, attraverso un nichilismo ultraterreno con la voce di Vega che biascica periodi o parole, e vomita rancore. All’inizio con Trinity l’atmosfera è più dinamica e pungente, e viene evocata una trinità femminile, manifestando un tatto per la vitalità, in senso lato carnale e dai tratti blasfemi; in Fist maggiore sperimentazione eterodossa che rimanda all’industrial, dalle dissonanze evidenti come graffi sull’ardesia; Samurai ha sospensione in senso lirico, attraverso un melodismo più austero e riverberato; Nike Soldier ha un ritmo periodico e ossessivo che induce alla paranoia, mentre viene dato spazio ad un oscuro scrutare della realtà nichilista. Magma di suoni acido si distende nella traccia Psalm 68, che levita in senso astratto, e un altro meno lisergico al termine dell’album con Breathe, più auto-conclusiva.

A volte sembra che in Mutator si gioca con un’atonalità armonica, di matrice quasi psichedelica, speziata. Una possibile interpretazione è che tale sperimentazione permette di fare uso di diversi scenari, dove quel suono lisergico, quasi di derivazione pseudo-orientale, collide sarcasticamente con l’immaginario urbano e obliquo di Vega, che viene ricombinato in una forma plasticamente punk e scorretta. Quindi una prima testimonianza di questi esperimenti interessanti che, altrettanto in futuro, ci daranno altre soddisfazioni.

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