Immagino cosa spinga un immigrato ad abbandonare casa e rivolgersi altrove in cerca di fortuna, cioè, trovare diritti, doveri, rispetto, lavoro, beni primari, secondari, terziari, tutela, servizi, infrastrutture, benessere, ossia l’intero pacchetto che conferisce dignità ad ogni essere umano, fatto salvo il sacrosanto diritto di abitare ovunque si voglia, il quale deve rimanere inalterato.
Le migrazioni hanno interessato il nostro pianeta da sempre, sebbene non siano state ogni volta migrazioni pacifiche – ricordiamo ad esempio la caduta dei nativi americani sotto l’usurpatrice violenza degli europei.
Nello specifico la migrazione di massa si sviluppa per motivi insostenibili da parte dei migranti, facendoli scappare da guerre, carestie, catastrofi ambientali, colpi di stato, miseria, epidemie, occorse nei loro territori.
Il diritto internazionale, lo ius gentium (diritto delle genti), ha cercato di regolare tali vitali diritti preferendone alcuni ad altri. Il rifugiato politico ad esempio dovrebbe godere di uno status differente dal semplice migrante in cerca di fortuna all’estero. Questi punti fissi della civiltà si scontrano con l’inciviltà dei problemi generati non dalla natura ma dall’uomo, se l’uomo è causa di guerre, carestie, dittature, stermini razziali in patria, va da sé che ha già superato il limite della civiltà e del diritto.
Ma mentre queste persone che, diciamo pure a ragione, abbandonando in massa i luoghi natii per riversarsi all’estero, vivono un personale calvario al fine di ricavarne una degna e giusta collocazione che abbia una parvenza ed ufficialità concreta volta a decretare la loro civile esistenza, negli altri paesi, nelle persone che accolgono, si sviluppa altresì un affine calvario, lo scontro di opinioni circa il nuovo fenomeno integrativo che li riguarda.
Il problema non è da sottovalutare, perché inevitabilmente, al di là del sanfrancescanesimo caritatevole e puro, diretto e condiviso, vissuto e respirato, si genereranno, si generano di già, delle trasformazioni che riguardano, lo implicano, lo status del residente.
Cioè, il semplice fatto di accogliere, non va ad equilibrare il fatto che aziona la fuga migratoria, a meno che questa non sia contenuta ed abbia un termine.
La semplice accoglienza è solo un fatto umano che nobilita l’uomo e avalla tutti i principi elencati sopra in materia di civiltà.
Un uomo, 10, 100, 1000 persone naufragano su una zattera ed il codice umano prevede di salvarli, quello inscritto nel nostro DNA, quello che ci definisce uomini e non animali che obbediscono ad altre leggi naturali.
Nonostante, in regime di sopravvivenza, si sa, l’uomo difficilmente si lascerà morire, piuttosto combatterà proprio come un animale e si scaglierà, a mali estremi, con violenza inaudita verso i suoi simili scoprendosi capace di uccidere il più debole pur di rimanere in vita.
E’ questo un caso limite che afferma un altro triste principio della condizione umana, che resta oggettività viva e presente nell’essere umano.
E allora, si tratta di discernere le varie oggettività che si presentano di volta in volta e che vengono a modificare, per forza lo faranno, la legge di causa che genera sempre un effetto se abbastanza forte, e qui l’aria che tira è di bora e tempesta con neve.
Abbiamo tutti delle responsabilità – non perdendo di vista il concetto di civiltà e di essere umano -, perché varcando un limite, valicando il contenibile, cambiano di conseguenza gli assetti, le politiche, le socialità, le tematiche interne, proprio quelle che sono saltate nei paesi dei migranti.
Le responsabilità sono certo maggiori e macroscopiche, persino storicizzate, in direzione delle politiche che hanno generato il depauperamento nei territori da dove la gente fugge; altro sacrosanto diritto è il porvi rimedio, magari rinunciando ad una fetta di benessere nei paesi che hanno decretato la fine di altri.
Sarebbe pure un atto logico che le persone migranti comincino ad usare il cervello per difendersi dalle strumentalizzazioni, nel senso letterale del termine, divenire strumenti, o peggio, oggetti, che come pietre, esse son prive di volontà, vengano trattati come cose da stipare, gettare, prendere a calci a piacimento, roba di nessun valore, ad opera di filibustieri che, sfruttando la situazione di miseria e paura, lucrano su detti disperati allo sbando, i quali hanno perso tutto e il cui unico miraggio è seguire con lo sguardo la stella polare, unico segno di riferimento. Anche se questa presa di coscienza è solo un punto microscopico a confronto delle macro responsabilità che interessano i grandi paesi fautori, per ragioni imprescindibili storiche e attuali, della incipiente catastrofe migratoria coattiva.
L’immenso serbatoio che da il via alle migrazioni su vasta scala ha in sé rotta la valvola del flusso che produce e l’incontenibile sta diventando un problema comunque oggettivo, esiste!, che si scontra con le popolazioni autoctone, vessate anche esse da problemi autoctoni, che in termini di gravità sono prossimi a quelli dei cugini migranti.
Se nelle persone comuni abitasse una coscienza e una vera responsabilità storica delle malefatte perpetrate a queste popolazioni che oggi approdano sulle nostre coste, se questo semplice ed enorme fatto culturale fosse parte integrante del nostro patrimonio di italiani, io credo che neppure sarebbe mai scoppiata alcuna guerra.
Comunque è assodato che il fenomeno generi storture, benché sulla carta potrebbero risultare gestibili, e così meccanismi di difesa, da parte di altra povera gente, quella autoctona, scattano inevitabili di fronte ad una situazione che va ad aggravare la giù precaria situazione politica-sociale-economica degli autoctoni stessi, che vivono in stato vegetativo tenuti in pugno da uno sparuto nugolo di mafiosi incapaci di provare un reale sentimento umano, che si avvicini ad esempio a quello dell’accoglienza, a meno che dietro non ci facciano un bel po’ di soldi, esaudendo il loro tornaconto personale.
Ed è palesemente netto il divario creato tra cittadino comune e politico; essi interpretano due ruoli inconciliabili l’un l’altro, non sono le due mani che si lavano a vicenda, sono un’ala d’angelo e un forcone da diavolo; non si corrispondono in nulla, antitetici e nemici sul piano reale.
Spendendo un’altra carta a proposito di tali meccanismi di difesa, è chiaro che il problema terra terra che l’autoctono si trova a fronteggiare comincia a raggiungere proiezioni di limite, come se l’acqua potabile a disposizione per i 50,000 autoctoni non bastasse più a soddisfare le esigenze della popolazione locale in quanto altre 20.000 persone, che forse aumenteranno nel breve periodo, sono state assorbite, ospitate, accolte, su un territorio la cui disponibilità idrica era bastevole ed ora non più bastante per tutti.
E’ ovvio che la carità, mantenendo immutati gli attuali equilibri, gli attuali scenari politici globali e comunali, gli attuali modi di pensare, le attuali gerarchie, gli ordinamenti, le leggi, rimanga l’ultimo baluardo di civiltà che venga espresso liberamente ed umanamente dalle genti, ma la cosa considerevole e suprema sarebbe rendersi conto che nell’impossibilità di mantenere quei rapporti cristallizzati, così come li si vorrebbe lasciare, specie gli autoctoni lo vorrebbero e non i migranti che non li hanno più e che ora vengono a costituire volenti o nolenti una minaccia di sottrazione di quella convenienza ai detentori autoctoni, bisognerebbe invece cambiarli, ‘sti rigidi obsoleti rapporti, proprio per sfuggire ad una ulteriore strumentalizzazione apocalittica, quindi ben peggiore, che danneggi tutti e comandata dai pochi detentori effettivi delle ricchezze mondiali, i quali notoriamente sono solo dei pezzi di merda, fatto certificato dall’assurda situazione in cui ci veniamo globalmente a trovare.
Appare chiaro che per evitare di scambiare per nemico colui che venuto da un altro mondo, causa necessità vitale, ti vuole portare via un po’ d’acqua, riducendone il tuo fabbisogno giornaliero, bisognerebbe scongiurare l’atto di pensare secondo logiche medievali di borgata e dare ampio respiro ad un rinnovamento che sta urlando nella contemporaneità il suo manifestarsi proprio attraverso l’insorgere dei nuovi quotidiani rapporti evidenziati, cosicché la semplice e buona carità dell’accoglienza diventa solo un punto sterile e diseducativo, poiché non crea una coscienza, non forma una idea che faccia capire cosa cazzo sta realmente accadendo. D’altronde è impossibile che ciò avvenga proprio in un paese che incarna una crisi umana, prima che politica sociale ed economica, che lo mantiene in una dittatura di debolezza, manovrabilità e ottusità.
Cazzo, aiutate anche me! Voglio andare in Islanda!