Vado dove sono stato e siamo stati una possibilità.
E questa possibilità è venuta dal mare, mio padre, e mia madre si è fatta terra. Tocchiamo terra, Buenos Aires. È giorno. Si riaccendono i telefoni, uno sciame di schermi si dirige verso la dogana e così noi. Il cammino verso l’uscita si biforca, prendiamo la strada degli stranieri e ci mettiamo in coda mezzo stralunati: a colazione sull’aereo mi sono mangiato una salsiccia, sono in uno stato alterato di coscienza British Airways.
Inizia il processo di identificazione: “Brucaliffo: Cosa essere tu? Alice: Bè non so più neanche io signore, mi son trasformata così tante volte oggi che…” Ci fotografano gli occhi e ci prendono le impronte e ci chiedono dove andremo a stare. Infine il timbro sul passaporto, le valigie e nulla da dichiarare. Infine la porta. Siamo consapevoli di apprestarci a vivere il momento che la mente fotografa e trattiene, la porta che si apre quando fuori c’è qualcuno che ti aspetta…
Il desiderio di vedersi, di colmare il vuoto dell’assenza, l’entusiasmo, l’eccitazione di essere arrivati, i sorrisi, gli abbracci..
Mia madre nuovamente terra, Buenos Aires, oggi.
Ci spogliamo del nostro autunno freddo e il caldo umido ci assale. José, il compagno di mia madre, ci guida fuori da Ezeiza, dove la polizia aspetta i tifosi di ritorno da Madrid.
La nostra destinazione è La Plata, calle 3 entre 79 y 80, nel barrio dove i suoi genitori e i miei nonni sono arrivati insieme da Mongrassano, Cosenza, finita la seconda guerra mondiale. Siamo approdati in un nodo cruciale del nostro spazio-tempo, vorrei poter dire ai miei bambini “es un lugar mágico”, il luogo sperato, romantico, disperato, perduto e drammatico in cui si sono mossi i trisnonni, i bisnonni, i nonni, vostro padre e, ora, voi. Ma è troppo anche per me e inizio a rileggere Cent’anni di solitudine, così, per digerire la salsiccia, e poi dormire…