Possiamo senza dubbio aprire questa nostra analisi affermando come, tra le tante sottoculture, italiane e non, quella più bersagliata, osteggiata e, sostanzialmente meno capita dal mainstream, sia stata (e sia tutt’ora) quella skinhead. Quello stesso mainstream che, attraverso le ramificazioni dei mass media, l’ha facilmente e superficialmente individuata come nemico pubblico, a cui additare ogni tipo di nefandezza sociale e politica.
Su questo credo non ci siano dubbi. Nel caso, consigliamo la lettura di questo interessante “Italia Skins” di Flavio Frezza, volume edito dalla Hellnation, in cui l’autore, per anni in prima linea con i Razzapparte, e protagonista della scena skinhead viterbese, racconta la galassia skinhead attraverso appunti e testimonianze che vanno dagli anni ottanta al nuovo millennio.
Skinhead è un termine che ha fatto paura. E che, ancora oggi, tende ad essere travisato nel suo significato originario, e nei simbolismi che da esso derivano. In parte, pensiamo che non potesse che essere così, visto il carattere sfuggente e di difficile classificazione del movimento sottoculturale. La sua caratteristica più importante e distintiva, e cioè l’essere variegata, atipica ed eterogenea, è stata anche la causa di tutti i suoi mali. Come spesso infatti accade, ciò che non viene immediatamente compreso, finisce per “fare paura”. E quale miglior male assoluto di un’orda di ragazzi dalla testa rasata che vestivano tutti allo stesso modo?
“Italia Skins” si muove intorno a queste contraddizioni, a questi falsi miti, e lo fa dando parola ad alcuni tra i protagonisti di quegli anni. In modo da provare a spiegare, per l’ennesima volta, come si sia andati avanti per anni con la convinzione di avere trovato i responsabili di tutti i mali del mondo moderno, mentre invece, molto più semplicemente, non avevamo capito nulla.
Quello che abbiamo molto apprezzato è l’assenza di quell’approccio autocelebrativo che avrebbe potuto immediatamente risultare stucchevole allontanandoci dalla lettura. Come detto, c’è solo il racconto sincero di un periodo storico difficile da un punto di vista sociopolitico, che, in alcuni frangenti – cosa tutt’altro che scontata – con onestà intellettuale finisce per dare spazio ad una giusta autocritica.
Crediamo che si tratti di una lettura che possa servire a tutti quanti, anche solo per uscire per una volta – e del tutto – dal binomio skinhead neonazismo, associazione di idee tanto di comodo quanto superficiale, che – proprio per i motivi di cui sopra – abbiamo dovuto sentirci ripetere per troppo tempo.
Non è mai facile raccontare l’aggregazione giovanile, soprattutto a coloro che non l’hanno vissuta o vista sfilare di lato nella propria vita. Ancor meno per un movimento dai tratti decisamente borderline come questo, ricco di contraddizioni e di posizioni di difficile comprensione che tutti quelli che, come me, l’hanno sfiorata, senza toccarla mai davvero, e che l’hanno guardata con interesse e, lo ammetto, con qualche pregiudizio.
L’idea che ci siamo fatti leggendo “Italia Skins” è che si è trattato di un qualcosa che avrebbe potuto essere ma non è stato. Ci si è fermati strada facendo, interrompendo quel percorso che, a nostro avviso, si identifica con quella mancata crescita che avrebbe sancito il passaggio da sottocultura a controcultura. Rileggendo però le pagine delle testimonianze, si fa strada in noi l’idea che quello che secondo noi avrebbe dovuto essere un passo fondamentale, fosse, a giudizio della maggior parte di coloro che erano dentro al fenomeno, un qualcosa di non sentito, di non necessario.
Il mio è un giudizio di parte, figlio delle esperienze all’interno dei Centri Sociali Autogestiti di quegli anni. Figlio della mia personalissima idea che le sottoculture dovessero contaminarsi a vicenda per sopravvivere e per sfociare in un qualcosa di collettivo che fosse “più alto” da un punto di vista sociopolitico. Figlio, e non potrebbe essere altrimenti, di tutto quello che ho visto e vissuto, cioè della quasi totale distanza (forse per disinteresse, forse per apatia) tra gli skinhead spezzini e le iniziative del CSA. Non c’era particolare ostracismo, spesso si viveva gomito a gomito, ma mancava completamente l’idea di far parte di una classe sociale oppressa, e desiderosa di rivalsa.
Questo è il mio più grande dubbio, che ritorna, dalle pagine del libro e mi scuote ancora la coscienza. Perché un movimento – per sua natura e genesi – antirazzista e sottoproletario, non sente il bisogno di socializzare al di fuori di quelle che sono le ferree regole di appartenenza con gli altri rappresentati della working class?
Mi sono posto anche dall’altra parte della barricata, chiedendomi se, alla fine, non fossimo stati “noi” a ghettizzarli, inquadrandoli come rivali, come non dotati di quel fuoco rivoluzionario che credevamo di possedere. Sta di fatto che una risposta accettabile non l’ho ancora trovata, ma per lo meno, grazie ad un testo come quello di Frezza, sono riuscito a mettere al proprio posto alcuni dettagli che mi mancavano.
Ovviamente non ci sono solo luci in “Italia Skins”. Sarebbe sciocco anche solo pensarlo. Non amo e non credo negli assolutismi, in ogni loro forma. E non amo nemmeno fermarmi, nel momento in cui un testo mi piace, al solo incensarne gli aspetti che mi sono più graditi. Non so nemmeno se individuare le mie parole come critica. E forse nemmeno mi interessa. Ci tengo però a sottolineare come – da fuori – alcuni degli interventi possano lasciare un pò di amarezza.
Io, che sono legato ad una cifra identitaria che verte soprattutto sull’aspetto ideologico di una sottocultura (prima) e di una controcultura (dopo), resto deluso nel momento in cui leggo ripetutamente di come l’aspetto stilistico sia stato quello predominante. Se la ribellione resta solo estetica, finisce per essere sterile, fine a se stessa. Non stiamo parlando di mode giovanili. O per lo meno non credo che questo fosse l’intento e il cuore del movimento skinhead di quegli anni. C’era qualcosa di più, che però, spesso, resta schiacciato sotto il peso della “divisa” di ordinanza. Come detto sopra, non si tratta di una critica, ma di un rimpianto, per un qualcosa che aveva un potenziale enorme ma si è limitato all’essenziale, senza osare.
Un peccato, perché alla fine, secondo me, stavamo tutti dalla stessa parte, ma non ce ne siamo mai accorti, abbiamo preferito continuare a stare al buio per paura di accendere la luce.