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Recensione : JACK WHITE NO NAME ALBUM

Jack White No name Recensione: nuovo album (il suo sesto complessivo) all'insaputa degli stessi collaboratori-dipendenti che lavorano per lui alla Third Man Records

JACK WHITE NO NAME ALBUM

Ha suscitato notevole hype sul web, in questi giorni, la notizia dell’inaspettata decisione messa in atto dal noto frontman/polistrumentista/producer Jack White, cioè quella di aver realizzato il 19 luglio, a sorpresa, un nuovo album (il suo sesto complessivo) all’insaputa degli stessi collaboratori-dipendenti che lavorano per lui alla Third Man Records (la label fondata dallo stesso White) senza annunci ufficiali, senza il consueto battage pubblicitario che – di norma – precede una release discografica e, soprattutto, senza nome: il disco, infatti, è completamente bianco e presenta una sola, enigmatica dicitura: “No name“, e le canzoni in esso contenute non hanno nessun titolo.

Altre anomalie di questo “No name record” riguardano, senza dubbio, la modalità di distribuzione, con la scelta del menestrello statunitense di donare copie gratuite di questo Lp come regalo “misterioso” per gli avventori/clienti che hanno fatto acquisti nei negozi fisici della Third Man a Nashville, nella “sua” Detroit e a Londra; inoltre, il full length è stato rilasciato solo in formato vinilico, snobbando le piattaforme digitali dello streaming musicale, tuttavia White ha incoraggiato le persone entrate in possesso della sua nuova musica a diffonderla agli amici e (s)caricarla su internet, cosa puntualmente avvenuta nelle ultime ore tramite la buona vecchia pratica del “passaparola”.

E così, out of nowhere, viene pubblicato un Lp “fantasma” di cui si conosce ben poco (sconosciuti anche i musicisti che vi hanno preso parte, eccetto Jack White, ovviamente) ma l’importante è il contenuto e, tra questi solchi, di sostanza rock ‘n’ roll ce n’è (e finalmente) in abbondanza e, anzi, si può tranquillamente affermare, senza tema di smentite, che questo long playing “anonimo” sia la cosa migliore partorita dal nostro almeno dai tempi dei White Stripes, duo garage/blues/punk (formato insieme alla batterista ed ex moglie Meg alla fine dei Nineties) che gli ha dato la celebrità mondiale (ma che purtroppo viene ricordato, specialmente in Italia, solo per “Seven nation army“, strafamoso pezzo il cui ritmo/riff portante è stato burinamente banalizzato e trasformato in un coro da stadio-martellante tormentone trash calcistico/sportivo).

Accantonati (momentaneamente, o definitivamente, in futuro si capirà) infatti gli istrionici esperimenti ibridi/cantautoriali di ricerca e innovazione delle prove soliste precedenti, Jack torna alle origini rilasciando quaranta minuti di nuova musica, suddivisa in tredici brani – di cui i primi sette contenuti in una side A denominata “HEAVEN AND HELL“, come probabile omaggio ai Black Sabbath, e i restanti sei nella side B: “BLACK AND BLUE“, quest’ultimo forse a ricordare l’influenza degli Stones – nei quali riesplodono sonorità elettriche care ai White Stripes del periodo “Elephant” (“Untitled A3“, “Untitled B4“) frammenti di Raconteurs, fragranze blues, da sempre care al funambolo di Detroit (“Untitled B2“) sferraglianti cavalcate Stoogesiane (“Untitled A6“) garage rock che arriva a lambire territori un tempo bazzicati da Bass Drum of Death e Ty Segall (“Untitled B5“) e heavy garage/hard blues dal riffing Zeppeliniano imbastardito da cazzimma in salsa Rage Against The Machine (“Untitled A1, #A2, #A5, #B1” o la conclusiva “Untitled B13“) cafone e sguaiato quanto basta.

John Anthony Gillis è in missione (forse quella di mandare affanculo l’ascolto moderno digitale?) e intanto ha sgravato per la comunità R’N’R un nuovo figlio grezzo e ruspante, tutti gli altri ascoltatori superficiali continuino pure a sprecare ossigeno cantando “pòòò-po-po-po-po-pòòò-pòò”…

JACK WHITE  NO NAME ALBUM

 

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