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Recensione : Jfdr – White Sun Live.part I: Strings

JFDR rivisita alcuni dei suoi pezzi migliori provenienti anche dalele sue esperienze musicali precedenti, rivedendole con un arraggiamento di archi.

C’è una deviazione lungo la strada che passa vicino alle atmosfere struggenti di Antony and the Johnsons, il raccoglimento crepuscolare di Sigur Ros e la carica di emotiva di Damien Rice: conduce al nuovo lavoro di JFDR, che rivede alcune delle sue canzoni precedenti, provenienti anche da suoi progetti musicali passati con l’aggiunta dell’arrangiamento di violini.

Ogni canzone, a partire da “Somewhere”, ci racconta una storia, un ricordo, dei sentimenti posti volutamente sotto la luce di un “White Sun” (Sole pallido), la canzone che presta anche il titolo al disco affinchè a risaltare sia solo l’essenziale: poche gocce di emozioni intense a scacciare via l’apatia ed il senso di smarrimento creati dagli archi. Sono infatti proprio questi ultimi che donano a queste composizioni già esistenti una terza dimensione, una maggiore profondità che al tempo stesso vuole sfociare volutamente nell’intimo, nell’interiorità di chi ascolta.

La sperimentazione che JFDR propone, sembra quasi voler suggerirci principalmente due cose: la prima è che in un certo senso una canzone può “non finire mai” di essere raccontata. I violini permettono di guardare il mondo racchiuso nella canzone da un punto di vista differente, di conoscerlo tramite un’altra voce e pensiero che gettano luce su sfumature e particolari che dall’angolatura precedente non eravamo in grado di notare. La seconda, è che una canzone non è un qualcosa che va semplicemente osservata o subita, ma in cui bisogna immergervisi senza timore di non sapere dove si arriverà.

I virtuosismi e l’attenzione ai particolari che i brani presentano, fungono da segnali stradali verso una destinazione che non sarà mai uguale a quella di nessun altro, ma solo la nostra.

La voce di Jófríður (dal quale deriva appunto il nome JFDR) è “il sole pallido” che vuole illuminare le composizioni musicali del disco. Una voce pulita e melodica, gentile e malinconica allo stesso tempo che prova ad ispirarsi alle grandi voci femminili del Nord Europa, vedi Sinead O’Connor. Anche in questo caso potrebbe essere facile cadere nel fraintendimento, e rimanere delusi da una apparente mancanza di espressività e varietà tonale e tecnica vocale.

Nell’economia del disco però, è la voce perfetta e attinente al progetto melodico, e mi piace pensare che l’artista vi abbia lavorato sopra per raggiungere lo scopo che si era riproposta. Forse però questa è anche la pecca di tutto l’impianto del progetto: un artifizio troppo calcato nella sua perfezione che finisce cosi per diventare monotono ed asettico, spingendoci eccessivamente lungo percorsi introspettivi senza riposo o varietà di sfumature, imprigionandoci in un mondo pallido, fatto di nero, scala di grigi e tonalità di bianchi.

L’eterna alba di un giorno che non inizierà mai.

ETICHETTA: Moor Music

TRACKLIST
1 Somewhere (String Version) 02:59
2 Evgeny Kissin (String Version) 03:42
3 Orange (String Version) 03:18
4 White Sun (String Version) 03:44
5 Instant Patience (String Version) 04:39
6 My Work (String Version) 04:33

LINE-UP
Jofridur Akadottir – Vocals, guitars and elettric bass
Asthildur Akadottir – Vocals and piano
Ingrid Karlsdottir – 1st Violin
Gudbjorg Hlin Gudmundsdottir – 2nd Violin
Gudrun Hrund Hardadottir – Viola
Pordis Gerdur Jonsdottir – Cello
Borgar Magnason – Double bass

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