Una città perfetta è un romanzo che ci racconta di Guido e di un gruppo di ragazzi che come lui frequenta la Torino degli anni ’90 tra centri sociali, case occupate, stadio e radio libere.
L’incipit e parte del racconto sono ambientati ai giorni nostri, per cui c’è questo salto temporale che ci porta a vent’anni dopo nel corpo principale del libro, nella struttura vera e portante del libro, nei fatti del protagonista poco più che adolescente. Questo slittamento di tempo ci disegna il contrasto dei tempi e congela in maniera formidabile le azioni e le voci in quegli anni ’90 che per chi li ha vissuti, a Torino, a Roma o Milano che sia, hanno significato un periodo forte e pregno di accadimenti per i movimenti, le controculture cittadine, le azioni antagoniste.
Dunque Una città perfetta lo si può enumerare tra quei romanzi che assurgono a documento generazionale oltre che come racconto sulla giovinezza, sulla traumatica e fantastica scoperta degli ideali, sulla ricerca di un’identità.
Juri Di Molfetta (già autore con Eris Edizioni di “Quasi sveglio” e “Oggi tocca a me. Una guerra per bande”), non nuovo nel raccontare la periferia e la realtà dei movimenti antagonisti, ci disegna con Una città perfetta uno scenario suggestivo ma verace, con pennellate di rabbia e malinconie.
“Negli anni ’90 a Torino si occupavano case con imprevedibile costanza. Ne sgomberavano una e quelli che avevano cacciato si dividevano e andavano ad occuparne altre due. Le occupavano per viverci, per farci festa, per allevarci cani, per coltivarci pomodori e la marjuana.”
In questa Torino che “dagli inizi degli anni ’90, suo malgrado, le cose non erano più le stesse, la grande fabbrica aveva iniziato a spegnersi, lasciando attorno a sé una galassia di officine e capannoni agonizzanti. Ettari di città da sfruttare, reinventare, divorare.”
E perciò nasce questa dicotomia metropolitana tra affari/speculazione e rioccupazione libertaria del proprio territorio abbandonato e in parte depredato.
Le illustrazioni di Francesco Frongia abbelliscono fortemente il volume, e ci regalano le immagini in parte surreali di questo racconto così reale e così onirico nello stesso tempo, così drammatico e liberatorio insieme.
Bisogna ringraziare Juri che non ci fa dimenticare con questo racconto cosa vuol dire la ricerca della libertà, vivere la strada e la città come sinonimo di appartenenza a qualcosa di più grande e vero, il sopruso sbirresco barra economico barra catechizzatore, cosa vuol dire lottare per qualcosa, cosa significa essere parte di qualcosa. Con prosa asciutta ma carica di emozioni ci svela un periodo, ci traccia l’amore e la disperazione, ci indica una strada, che non è l’unica, ma una bisogna percorrerla, e bisogna farlo senza remore, senza guardare al passato con un senso di perdita ma, sempre, con la speranza della giustezza.
(Post scriptum doveroso: come ci viene raccontato nel romanzo, un certo tipo di movimento a Torino è stato, e lo è ancora, legato strettamente allo stadio, a un certo modo di vivere la stadio. Specialmente una parte dello stadio. Io, come Guido, come Juri, propendo per quella parte, pur vivendo a Milano, quindi, mi dispiace cari strisciati bianconeri ma: Forza Toro!)