Il 2024 è l’anno dei comeback album. Dopo quello (annunciatissimo) dei Cure, appena uscito, quello (inaspettato e graditissimo) dei Jesus Lizard e l’altro (purtroppo, amarissimo) degli Shellac, infatti, si è discograficamente sublimato anche il ritorno in pista dei Karate, seminale combo indie/alternative/post-hardcore originario di Boston, che il mese scorso ha pubblicato “Make it fit“, settimo album complessivo della band, uscito sulla label di Chicago Numero Group.
Un’attesa durata venti anni, visto che il più recente Lp del gruppo (fondato nel 1993 dal frontman/chitarrista Geoff Farina e dal batterista Gavin McCarthy, coadiuvati dal bassista Jeff Goddard) era stato “Pockets” nel 2004, prima di interrompere il proprio percorso nel 2005 – per oltre tre lustri – a causa dei noti problemi di udito sofferti (e poi risolti) da Farina, che aveva segnato uno scioglimento durato diciassette anni, e interrotto nel 2022, quando i nostri si erano riuniti per riprendere a suonare dal vivo con un tour mondiale che li aveva portati a suonare anche in Italia.
Farina e soci – universalmente annoverati tra i pionieri dello slowcore, con Geoff a innervare le chitarre di tessiture ritmiche influenzate dal free jazz – tentano di ripristinare anche in studio la chimica delle esibizioni dal vivo e l’alchimia sonora che aveva contraddistinto i dodici anni precedenti della loro parabola artistica, e i dieci brani di questo nuovo capitolo ci dicono che il trio non ha smarrito la via maestra, in termini di affiatamento, confermandosi a discreti livelli, ma il disco, nel suo complesso, sembra mancare dello spessore qualitativo di cui erano pregni Lp come l’omonimo, “In place of real insight“, “The bed is in the ocean” o “Unsolved“, tutti album che, a cavallo tra i due millenni, avevano contribuito a ridefinire il suono post-tutto (rock, emo, hardcore, jazz, altro).
Registrato quasi in presa diretta insieme al fido Andy Hong, “Make it fit” rivela una maggiore accessibilità sonora rispetto al passato, coi Karate che citano come influenze Wes Montgomery (con la “quota jazz” assegnata a “Liminal” e alla conclusiva “Silence, sound“, che flirta con sognanti atmosfere post-rock) i Fugazi (soprattutto in “Rattle the pipes“, di gran lunga il migliore brano del lotto, a pari merito con “Fall to Grace“, e Farina resta pur sempre cognato di Ian MacKaye) Phil Lynott (particolarmente presente nell’opener “Defendants” e nelle successive “Bleach the scene” e “Cannibals“, su cui aleggia il fantasma dei Thin Lizzy) i Clash e il punk rock (nell’energica “People ain’t folk“) intervallati da “Around the dial” (che si ricollega allo spirito dell’ultimo periodo della band) e da numeri jazz/reggae/blues come “Three dollar Bill“.
“Make it fit” si lascia ascoltare bene, il fuoco creativo arde ancora sotto le ceneri del tempo che fugge, ed è rinfrancante rivedere in azione personaggi che da anni stimiamo tanto ma, onestamente, il nuovo materiale non fa gridare al capolavoro, e dal ritorno di una band così importante come i Karate, forse, era lecito aspettarsi qualcosa in più.
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