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Recensione : Kill your boyfriend, Voodoo

Kill your boyfriend, Voodoo: i primi quattro brani (The King, The Man in Black, MrMojo e Buster) si contraddistinguono per i giri ossessivi, ostinati, dritti meccanici duri diretti quadrati angolari cartesiani pietmondriani,

Vudù, una delle religioni più antiche che si conoscano, affonda le sue radici nell’Africa ancestrale, portando con sé i residui di un mondo totalmente altro, fatto di oggetti e rituali che veicolano significati profondamente alieni, incomprensibili alle nostre menti plasticose, inscatolate  nel rigido determinismo causalistico della cultura odierna.

Di questo antichissimo e nobile retaggio, i Kill Your Boyfriend decidono di recuperare l’aspetto che, ad oggi, potremmo definire il più tipicamente folkloristico, quello che più di tutti è stato banalizzato e degradato attraverso i filtri della nostra idiota incapacità di pensare l’impensabile: mi riferisco ovviamente alle pratiche che consentirebbero di risuscitare i morti, trasformandoli in cadaveri ambulanti, gli zombi.

E qui sta il nocciolo della questione, o meglio, qui si fonda tutto il presupposto narrativo e creativo alla base del disco: dare vita a musica in grado di riportare in vita i grandi musicisti del passato, nello specifico quelli attorno ai quali si è forgiata l’intera mitologia del rock: Elvis Presley, Eddie Cochran, Buddy Holly, Ritchie Valens.

È un tentativo, questo, di ripercorrere e, al tempo stesso, rivivere e glorificare una tradizione ben precisa, la nostra tradizione, quella degli amanti del trittico chitarra-basso-batteria, di quella cosa lì che ci accomuna tutti, noi amanti del rumore in senso lato, che fin da bambini siamo rimasti incantati, stregati, ammaliati per sempre da uno specifico immaginario, da un certo modo di vestirsi, di porsi, di atteggiarsi e, soprattutto, di fare musica. La musica, quella sì, la cosa senza dubbio più importante, quella che ci fa apparire la vita meno schifosa di quanto non sia, che ci sorregge, ci consente di andare avanti nonostante tutto.

È quindi un vero e proprio gesto d’amore in atto qui, in questo rituale misterioso, totalmente altro e primordiale.

La marcia degli illustri ritornanti putrescenti è accompagnata da una musica fredda e tagliente come il ghiaccio; una parata di orrorifico sudore gelido che sgorga da carni morte colanti brillantina consunta in ciocche di capelli dal ciuffo a banana.

I primi quattro brani (The King, The Man in Black, MrMojo e Buster) si contraddistinguono per i giri ossessivi, ostinati, dritti meccanici duri diretti quadrati angolari cartesiani pietmondriani, come se questa parata mortifera procedesse per linee rette, sulle ascisse e le coordinate di un percorso rigidamente geometrico.

I suoni ultra bagnati, squillanti e acuti ricordano le grida di creature d’oltretomba, echeggianti nella nebbia di un pallido plenilunio.

Kill your boyfriend, Voodoo

Una musica dura come il marmo, la cui rigidità è venata dalle infinite crepe del cantato, questo sì curvo, ricurvo, ripiegato, che avviluppa e inviluppa, producendo uno scarto materico insistente e persistente.

È quindi la voce l’elemento chiave, ciò che anima l’inanimato, a rappresentare simbolicamente l’elemento magico, ciò dà vita alla gelida materia inerte.
A partire da The day that music died, passando per Papa Legba e giungendo infine a Voodoo, il disco raggiunge vette di inarrivabile bellezza: la musica si fa rito pienamente in atto, la sua concreta realizzazione, un baccanale synth punk che straborda i confini di ogni genere musicale e si fa assoluto, nel vero senso della parola; è un’entità a sé stante, animata, autosufficiente.

Ecco dunque, come si compie il miracolo: i grandi della musica non sono rinati in quanto individui, sono tornati a calcare il piano della realtà materiale sotto forma di suono nella sua tangibile concretezza.

La quarta fatica del blasonato duo veneziano è senza dubbio uno dei più interessanti lavori musicali che potrete ascoltare quest’anno. “Voodoo” è un’opera complessa, stratificata, ricercata, per nulla scontata, sorprendente, a tratti impressionante e sconvolgente.

È uno di quei dischi, insomma, che ci fa ben sperare per lo stato presente e futuro della musica creata, prodotta e registrata sul suolo italico e l’ennesima conferma che, se si vuole ascoltare qualcosa di interessante a livello nostrano, è sempre solo e unicamente all’underground che bisogna guardare.

Fate vostro questo album, non ve ne pentirete.

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