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Kill your idols parte II “A year and a half in the life of Metallica”

E così, dopo aver avuto il coraggio di parlare dei Nirvana e del documentario su Cobain, proprio io che non sono un loro fan, eccomi di nuovo qui a raccontare dei Metallica.

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Kill your idols parte II “A year and a half in the life of Metallica”

Mi piace, e mi stuzzica molto, il fatto che quando si va a toccare quelli che la stragrande parte della popolazione virtuale considera come “mostri sacri”, e in parte “cosa loro esclusiva”, si scatenino gli strali di tutti coloro che si sentono offesi. E così, dopo aver avuto il coraggio di parlare dei Nirvana e del documentario su Cobain, proprio io che non sono un loro fan, eccomi di nuovo qui a raccontare dei Metallica.

Detto che a 51 anni non sono fan di niente e di nessuno, soprattutto di me stesso, nonostante le interazioni online dei difensori del sacro verbo dei Nirvana, resto dell’idea della pornografia di una pellicola che mostra l’incapacità di una coppia di tossicodipendenti nel crescere una neonata. Perché quello che tutti i templari del trio di Seattle non hanno capito è proprio il focus dell’intervento. E cioè la pellicola in questione e non il valore dei Nirvana come musicisti. Ma è anche vero, che la comprensione del testo, spesso non è uguale per tutti.

In ogni caso lasciando da parte gli stalinisti del grunge, animati da una veemenza ideologica integralista, passiamo a questo nuovo affondo pseudomusicale. L’unica cosa che mi è dispiaciuta, per chiudere la questione, è che un paio di giorni dopo InYourEyes mi ha pubblicato un articolo molto più interessante e pregno di contenuti che analizzava il fenomeno anarcopunk britannico negli anni ottanta, passato purtroppo quasi invisibilmente tra le maglie dell’interazione. Peccato mortale, vista la sostanza, soprattutto sociopolitica del testo in questione, che avrebbe meritato ben altro confronto rispetto all’eroina di Cobain.

E invece come spesso accade, nel momento in cui si alza il livello culturale degli interventi si registra un calo delle interazioni. E non è un caso che “il popolo della rete” sia incline a questo tipo di atteggiamenti, i gattini continuano a spopolare, mentre gli articoli sulle morti sul lavoro (di cui ci siamo occupati di recente) sono costantemente ignorati. Potremmo tornare al solito vecchio discorso che ci vede figli di due madri, una che ci ha messo al mondo e una che ci ha cresciuto a sua immagine e somiglianza, la televisione. Ma non è questo il momento di parlarne, ci torneremo in un’altra occasione. Dato che ci ho preso gusto, dopo i Nirvana questa volta dedico il mio affondo ai Metallica.

Quale occasione migliore per farmi dei nemici?

Mentre la maggior parte dei miei coetanei sfidava la canicola dell’estate fiorentina mettendo a repentaglio le proprie coronarie per andare a vedere i Metallica dal vivo per quel carrozzone chiamato “Firenze Rocks”, io ho scelto di riguardarmi le oltre tre ore e mezza di “A year and a half in the life of Metallica” per capire l’inizio della fine del quartetto californiano. Per cercare sostanzialmente, di farmi un’idea di come una band che aveva appena realizzato un album che è entrato nella storia non solo del metal ma della musica tutta, potesse aver scelto di suicidarsi (attenzione, musicalmente e non commercialmente) in modo così netto.

Detto che già nelle immagini della seconda parte del documentario, per intenderci quelle dopo l’uscita dell’album, la perdita dell’innocenza da parte dei Metallica fosse ampiamente prevedibile, con atteggiamenti narcisistici al limite del patologico, non avrei mai detto che si potesse assistere ad un declino così pronunciato. Anche perché poi sostanzialmente, dal vivo i quattro non perdevano un colpo, come ebbi modo di vedere di persona nei tour fino allo scempio di “St. Anger”. Era come se ci fossero due band separate, una che dal vivo era una macchina (quasi) inarrestabile, e una che in studio non ne azzeccava una.

Alla fine sono arrivato ad una considerazione per cercare di raccontare (principalmente a me stesso) la storia dei Metallica. La loro carriera (per me conclusa come discografia con “Metallica” del 1991) si può dividere in tre periodi, coincidenti con i bassisti che si sono succeduti all’interno della band. Storia che, qualitativamente parlando, vede un progressivo declino ad ogni sostituzione, rispetto al membro precedente. La fase Burton, quella della crescita e dell’ingenuità, coi primi tre album. La fase Newsted, quella della consacrazione e dell’esplosione a livello mondiale con “…And Justice for All” e “Metallica”. E infine la fase del declino, che seppur iniziata con i due Load e Newsted, vede il suo drammatico apice con Trujillo e gli album recenti.

E così sostanzialmente la pensano anche loro, basta guardare le scalette dei recenti concerti, non ultimo quello fiorentino, dove spiccano (quasi) solo brani dei loro primi tre album. Scelta che sposo totalmente e che mi piace inquadrare come fosse il loro epitaffio sonoro. Per carità, dal vivo i Metallica sono ancora all’altezza della situazione, ma in quanto ad album in studio sono morti e sepolti da tempo. La loro attitudine dal vivo, al netto degli anni e dei problemi personali dei singoli con alcool, droga e depressione, ce li presenta in una condizione ancora accettabile, per cui la speranza è che proseguano in quella che, per assurdo e con la dovuta dose di ironia, può essere vista come la fase in cui sono diventati la cover band di loro stessi.
Io, che da “Kill’em all” a “Metallica” ho in casa tutto quanto abbiano pubblicato, in duplice o triplice copia a seconda delle versioni per il mercato statunitense, europeo o asiatico con annesse bonus track, compresi singoli, B-sides, alcuni dei quali sia in CD che in vinile, e bootleg vari, semiufficiali e non, come l’ultimo concerto di Cliff Burton prima dell’incidente, non ho nemmeno comprato gli ultimi album. Non posso pensare di metterli insieme agli altri. Sono due gruppi diversi, anche se il nome coincide. Gli inutili album con l’orchestra, “St.Anger”, il doppio tentativo di Load, quello con Lou Reed o gli ultimi due di cui non ricordo nemmeno il nome e l’ordine di uscita non possono stare nello stesso scaffale di “Master of Puppets”. Anzi non possono proprio stare in casa mia.

Quando uscì il documentario, la prima testimonianza sonora che raccontasse i Metallica in modo approfondito, ricordo che ne fui entusiasta. Poi, però riguardandolo a distanza, anche di poco tempo, iniziai a storcere il naso per alcuni atteggiamenti da rockstar gratuiti che l’emozione iniziale non mi aveva mostrato nei giusti contorni. Rivisto tutto oggi, a trent’anni di distanza e con la giusta contestualizzazione temporale, posso dire che nel momento in cui usciva “Metallica” il gruppo era già morto.

Musicalmente oggi non c’è più nulla da salvare. Gli ultimi album sono uno più insensato e inutile dell’altro. Purtroppo si tratta di tentativi falliti di riprendere un discorso che non può essere ripreso per un motivo sostanziale. Sono loro stessi come persone che non sono più quelli di un tempo. Di conseguenza i loro dischi. Non dovrebbe essere difficile da capire. Andare avanti in questo senso significa pensare di potersi crogiolare nella propria autocelebrazione. Cosa di cui sinceramente, almeno io, non sento la necessità.

Probabilmente, guardando ai Metallica sia di “A year and a half…” che di oggi (momenti che non sono poi così distanti tra loro) la mia visione è condizionata dal primo contatto con loro, nel settembre del 1988 per il tour di “…And Justice for All”, al Palatrussardi di Milano. Io resto, affettivamente legato a quei Metallica.

Inevitabile che li percepisca come un’entità estremamente distante da ciò che è successo negli anni a seguire. È cambiato tutto, sia dentro che intorno a loro. A partire dalle immagini con cui si chiude il documentario, che mostrano un gruppo che già faceva intravedere quella megalomania in cui si sono compiaciutamente specchiati all’interno del loro castello dorato. Indifferenti a ciò che stava accadendo fuori. Come nel caso della guerra a Napster e al mondo che stava cambiando. Con loro arroccati dentro e il file sharing fuori.

La storia li ha inevitabilmente relegati nell’ampio calderone degli sconfitti. Ma questo è ciò che penso io, che li ho seguiti con passione adolescenziale e che quindi potrei essere vittima della sindrome dell’abbandono.

E quindi come tale completamente destituita di ogni obiettività.

Sta di fatto, in conclusione, che tra il Firenze Rocks e il docu-film non salvo nulla, men che meno me stesso.

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2 risposte

  1. posizione condivisibilissima. io resto legato a AJFA perché quello è stato il primo tour dei metallica che ho visto, ma dovendo mettere sul piatto i loro dischi sicuramente MOP e RTL sono il meglio che mai abbiano realizzato, soprattutto se guardati con gli occhi di un tempo.

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