Intervista a Kristin Hersh e percorso attraverso i Throwing Muses, Vic Chesnutt e altro di Giovanni Panetta
Kristin Hersh ha sempre portato avanti la sua carriera con onestà e amore per la musica. Oscillando tra tre offerte musicali, ovvero i Throwing Muses, originari da Newport, Rhode Island, ma anche il progetto solista, più acustico, e i 50 Foot Wave, questi ultimi dall’impostazione più propriamente elettrica, distorta e dai suoni più addensati, la musicista originaria dalla Georgia ha dimostrato di districarsi attraverso sonorità sempre non convenzionali, a volte più rumoriste altre volte di un pop storto, il tutto con un retrogusto vagamente bucolico dove il concetto di eterodossia fa da padrone.
Kristin Hersh: evoluzione e spirito diyA nome Throwing Muses esce il 4 Settembre del 2020, posticipando la sua data di pubblicazione causa COVIC-19, il loro decimo lavoro Sun Racket, all’insegna di un suono più distorto ed elettrificato del precedente Purgatory/Paradise, con linee più affastellate e libere. I Throwing Muses, fondati nel 1981, hanno avuto, nel corso della loro quarantennale carriera, alcuni cambi di formazione, stabilizzandosi con i componenti storici Kristin Hersh (voce e chitarra) e David Narcizo (batterista, anche se non fu un membro fondatore) ai quali subentrerà nel 1992 Bernard Georges al basso, e hanno dimostrato sempre versatilità nel sapersi rinnovare, di sviluppare la loro poetica mai in maniera asettica, spostandosi geograficamente più volte – come è avvenuto con l’ultima produzione – e cercando quell’elemento e li ispirasse. Uno stile che parte da un background indie rock, e che nel suo progresso evolverà la sua attitudine alla sperimentazione tra melodia e rumore nelle sue diverse componenti.
Inoltre Kristin Hersh ha sempre mantenuto stretto il legame con il resto della scena (se così possiamo definirla), collaborando con artisti come Bob Mould e Michael Stipe. Ma soprattutto è stata contraddistinta da una forte amicizia con il cantautore Vic Chesnutt, con cui tante volte ha condiviso il palco – in tempi consecutivi o nello stesso momento. Della loro amicizia c’è la testimonianza di un memoir scritto dalla stessa Hersh, ovvero “Non Fare Stronzate, Non Morire. Un Addio a Vic Chesnutt”, tradotto nel 2019 per la Jimenez; un racconto spontaneo e flusso di coscienza dell’inconscio di Kristin, attraverso episodi frammentari e pensieri su quello che era presente e poi è mancato nella loro amicizia dopo la scomparsa di Vic, a seguito del suo suicido avvenuto nel 2009. Suoni che non se ne andranno mai, e che trovano il giusto modo per essere accompagnati in parallelo all’ascolto oppure nel rafforzare quei punti cardine delle poetiche dei due artisti.
Abbiamo rivolto alcune domande a Kristin Hersh su alcuni argomenti delle tematiche esposte. Di seguito l’intervista.
Cominciamo dalle Throwing Muses. A mio modesto parere il vostro sound unisce energia ritmica, e gusto crepuscolare, per quanto concerne la melodia, che attinge a certa new wave; inoltre i testi che narrano di un quotidiano naïf astrattista (come d’altronde si può notare anche nella scrittura dei tuoi libri), sono una perfetta cornice che rende il tutto irripetibile. Lirismo di derivazione d’oltreoceano si carica e si scompone attraverso quell’energia scorretta tutta americana. Com’è nata quindi quell’idea di suono che ha unito la cultura di provenienza con, se mi si può passare il termine, quella gemella?
Kristin Hersh: “Sicuramente siamo una band americana: in un certo senso sorridente e festosa, fortemente legata a progressioni blues e a canti dei montanari. Per quanto concerne i testi, vi è uno stile di scrittura tra la poesia e prosa, e strutturato a flusso di coscienza che funziona solo se sai come si vive là fuori tra la natura e le pistole, con la sensibilità sia per la foresta selvaggia che per le strade urbane. Cominciammo da molto giovani – mentre frequentavamo il liceo – quando il nostro sound fu determinato dai ragazzini i quali eravamo, nonostante musicalmente ci siamo evoluti per 40 anni. Rimaniamo caotici e rudi perché noi ammiriamo questo negli altri e nella vita.
“Firmando per un’etichetta inglese (4AD), diffondevamo la “americanità”, grazie a me che presi i Pixies e li portai nella scuderia. Avevo la sensazione che i Throwing Muses non potessero stare in un roster pieno di suoni grown-up(*) patinati e levigati e riverberi eterei. Eravamo dei ragazzini matti, e ancora sembriamo dei ragazzini matti. Siamo maturati musicalmente e personalmente, ma non ci siamo lasciati dietro quella parte più rude. In America stavamo su Warner Brothers, e anche quello fu un cattivo ingaggio: era tutto soldi, moda e STUPIDITÀ. Noi saremo sempre dei disadattati, e probabilmente questo ci va bene”.
Parliamo dei testi. Lo stile immaginifico della scrittura, che si manifesta per simbolismo, è una chiara e catartica visione del tuo mondo. Infatti nel tuo modo di narrare, strutturato a flusso, sono frequenti similitudini che concernono i protagonisti della tua scrittura. Uno stile letterario, la cui materia ricalca l’immaginario popolare/bucolico, che evidentemente prende vita dalle tue origini degli Stati Uniti del Sud. Quali sono quindi i tuoi modelli e ispirazioni effettive della tua scrittura? Inoltre le tue origini hanno fatto la loro parte in essa?
Kristin Hersh: “Sono nata in Georgia, cresciuta buddista da genitori hippie in una comune. Genitori hippie che sono cresciuti battisti del Sud i quali insegnavano ai poveri i “mestieri per bene”. Così mi è stata inculcata un’etica basata molto sull’empatia: quel distribuire non equamente le risorse è un errore, il ricco è avido, uno deve saper condividere con tutte le creature. Imparo costantemente tutto questo ogni volta che suono. Questo mi aiuta a organizzare il mio pensiero, ovvero quel solo pensiero: condividere con rispetto.
“Nel music business, chiaramente si celebra il denaro e l’ego, l’egoismo e la vanità, e ovviamente questo è l’opposto della musica. Lascio che la mia cultura originaria del Sud parli di storie di poveri, i quieti, i non festeggiati, di persone reali. E questo è quello che sono le mie canzoni, quello che è la mia vita. Le rockstar sono un errore; non sono un argomento musicale, ovvero rendere alcune persone più importanti di altre. Le vere canzoni sono empatia sonora”.
Hunkpapa rappresenta, dal mio punto di vista, un lavoro di transizione, in cui suoni più ieratici legati a certo post punk e suoni storti derivati dall’indie americano anni ’80 (più in generale), incontrano un pop agrodolce e rumorista del dopo negli anni ’90. Questo excursus descrive l’epifania (se così la vogliamo chiamare) di molte band di passaggio dall’indie all’alternative, espandendo in questo modo la poetica musicale. Voi avete molta familiarità con la cultura DIY in quanto, soprattutto, avete autoprodotto il vostro EP omonimo dell’1984, mai ufficialmente ristampato ed introvabile. Quanto ha quindi rappresentato per te quel mondo indipendente che ha segnato tutto il corso delle vostre carriere? Inoltre, riferendoci al dualismo indie/alternative, a quali dei due periodi ti senti più legata?
Kristin Hersh: ““Alternative” è un termine che hanno inventato come un insulto! Alternativa di cosa? Siamo così offesi. [Ride] Ma quando si era scoperto che con questo ci si poteva fare soldi, usavano gli impostori per imitare quello che era l’indie, per far annacquare il suono e far mimare i contenuti dei testi da parte delle band attuali. Nel music business hanno fatto sempre questo.
“DIY è il modo in cui abbiamo cominciato, e dopo aver provato a dare alla Warner Brothers dei stupidi pezzi per radio, sciolsi la mia band per uscire dal nostro contratto, dicendo a loro che non avrei mai più agito come un’oca giuliva modaiola e insignificante, e non gli avrei dato ancora un’altra stupida canzone. È egoista insultare la musica e l’ascoltatore in cambio di fama e denaro. Dissi chiaramente che volevo tornare DIY, che non avrei posto i miei personali guadagni prima delle mie convinzioni. Mi feci odiare da loro, da subito, e loro non avrebbero chiuso il contratto se non avessi scambiato il mio primo disco da solista con la mia libertà. Si presero tutti i soldi che ciascuno dei miei dischi fece. In quel periodo vissi al di sotto della soglia di povertà e crebbi quattro bambini in quello stato, ma continuerò a non porre i miei personali guadagni prima delle mie convinzioni. Come potresti? Non tornerò indietro né come donna né come musicista. È il solo potere che ho”.
LimboParliamo di Limbo, album del 1996 distribuito negli USA per la Rykodisc e per quasi tutti gli altri paesi per la 4AD. Ultimo della serie prima dello scioglimento l’anno dopo, il disco manifesta un eclettismo dai suoni solari e distorti senza farsi sfuggire trame più ordinate, come le arcate di violoncello di Martin McCarrick (che ha lavorato oltre che con te in solo, anche con Siouxsie And The Banshees, Dead Can Dance, This Mortal Coil e altri), e che personalmente mi ha ricordato le Breeders di Pod o le That Dog. E’ in un certo senso un lavoro cardine all’interno della vostra discografia, cosa che non viene suggerita dal fatto che vi sareste sciolti di lì a poco, passando la palla ad altri progetti. Non è una novità nel mondo della musica, ma, chiesto semplicemente, con quali intenzioni avete pubblicato Limbo?
Kristin Hersh: “Limbo è uno dei miei dischi preferiti dei Throwing Muses. Noi non stavamo suonando nient’altro che quei pezzi volessero che noi suonassimo. Ci eravamo liberati dal business orribile che conoscevamo. Il successo del music business è comprato dalle case discografiche, che comprano copertine di magazine e radio playlist. Non è determinato dalle persone. Il successo musicale è semplicemente: non mentire. Abbiamo smesso di mentire con Red Heaven è abbiamo creato quel meraviglioso modo di suonare con Limbo. Ogni disco che avevo fatto fino a quel momento ha resistito a quello standard di autenticità che ti dicevo. Never try to be cool, never try to be a star… be human, be songs”.
Parlando di distorsione, l’ultimo Sun Racket gioca molto sul tipo di rumore citato per via degli effetti e riff della chitarra. Inoltre trovo molto interessante il riff presente in St. Charles, di una cacofonia diversa che flirta con certo noise rock (volendo azzardare un paragone). Dal mio punto di vista è uno sviluppo innovativo. Ti chiedo cosa o chi ti ha ispirato nella scrittura di Sun Racket.
Kristin Hersh: “Sun Racket è solo lo sviluppo più estremo del nostro percorso musicale. Una band comincia a fare schifo dopo molto tempo se essa crede di essere più importante della musica, più grande del suo pubblico, ecc. I Throwing Muses continuano a evolvere perché puoi diventare un miglior musicista diventando allo stesso tempo un miglior ascoltatore. Le canzoni compaiono e richiedono vita.
“Quella delle stazioni radio è una specie di impersonificazione della vita da zombie, provando a essere cool, a essere grande, a fare soldi, ad attirare attenzione. I musicisti attuali sono fatti di umiltà, le rockstar sono l’opposto. Così i musicisti con cui lavoro sono ascoltatori incredibili. (La lavorazione di [ndt]) Sun Racket ci portò a Los Angeles, a New Orleans, al New England, per poi tornare a casa, (ed eravamo coinvolti, [ndt]) sia musicalmente che fisicamente. Era importante conoscere autobus e polvere, conoscere i tuoi figli e i tuoi compagni di vita, conoscere strade e oceani, alberi e una nuova cucina. La vera vita più l’anima sono la vittoria, non importa il denaro o l’ego”.
Domanda più diretta. Conti di venire con i Throwing Muses in Italia, dal momento che hai tenuto solo un concerto a nome tuo nel 2007 a Milano?
Kristin Hersh: “Noi vorremmo TANTO tornare. Abbiamo bisogno di essere invitati, non possiamo solo essere davanti ad un pubblico e cominciare a suonare. Ci è stato detto che non c’è abbastanza interesse in Europa. Questo richiama il fatto che tu non “pratichi il gioco della fama”. Noi scegliamo la musica ma qualche volta questo significa che non ci è garantito di suonarla”.
Parliamo della carriera solista. Vorrei porre la lente d’ingrandimento su Hips And Makers, il tuo esordio solista del 1994. Si percepisce un linfa vitale diversa; il lirismo melodico presente si combina con strutture armonico-melodico dissonanti e ritmicamente interessanti, soprattutto quelle della tua chitarra. A volte non è chiaro come tracciare una linea mentale tra le due componenti, e questa sua complessità lo rende affascinante. In riferimento a prima, Velvet Days ha un andamento ondivago e atonale, che combinato al crescere della melodia, rende il tutto un’ottima unione tra due polarità. Anche i testi sono degni di nota. Me And My Charms è il pezzo portante incentrato nel suo melodismo con parole efficaci nelle immagini. Mentre The Letter è un vortice emozionale fino ad arrivare al fulcro del brano. Un disco di un cantautorato diverso e fervido.
È stato un disco di evoluzione artistica, anche se Throwing Muses è un progetto che non ha mai perso fulgore. Mi chiedo come è nato quel disco e cosa ti ha spinto a intraprendere la carriera solista.
Kristin Hersh: “Ho fatto un disco solista in modo che la Warner Brothers ci consentisse di andarcene. Quei pezzi li avevo trattenuti e non funzionavano con la band. Ma mi piacque la chitarra acustica e il violoncello, il corpo di legno suonato da muscoli umani. Le dinamiche riguardano quell’armonia e puoi sentire quei crescendo nel volume e quei rumori (di fondo, [nda]) nella stanza, nessun artificio da studio di registrazione necessario. Quel tour durò tanto (più di un anno), e suonare in solo era come scalare una montagna.
“Non ci fu una dipartita dalla mia band, però. I Throwing Muses pubblicarono University nello stesso periodo, il quale ebbe di gran lunga il miglior successo di vendite. Vendette dieci volte quello che ogni altra uscita che rilasciammo fece mai, e insieme a questo la Warner Brothers letteralmente contattò le stazioni radio di interrompere la trasmissione dell’album, in quanto stavano lavorando ad un altro disco, non uno nostro. Stava a significare che loro ponevano le loro azioni di marketing dietro band alla moda che seguono con insistenza la fama e praticano il gioco del denaro, con donne che agiscono come modelle e non come musiciste. Che orribile business! E ancora, quel disco funzionava in ogni modo e noi andammo in tour per diversi anni. Questo era un bel momento per dire vaffanculo all’industria discografica e un ti amo agli ascoltatori che ci supportavano in quello che facevamo, che non era uno stupido gioco alla moda”.
Qui in Italia è stato tradotto e pubblicato “Don’t Suck, Don’t Die, Giving Up Vic Chesnutt”, il tuo memoir e flusso frammentario e spontaneamente poetico sui momenti vissuti con Vic Chesnutt fino alla sua scomparsa, avvenuta il giorno di Natale del 2009. Si evince che c’era un forte legame con il cantautore originario dalla Georgia; le vostre produzioni e poetiche sono diverse, ma entrambe sono accomunate da una vena intimista e letteraria peculiare, per motivi diversi frutto di una matrice oscura. Nel libro siete due personalità speculari per cui l’una ha bisogno dell’altro e viceversa, in un modo o nell’altro, e quindi viene mostrato per via empatica qual era la vostra amicizia, con tutte le difficoltà del caso. Ti chiedo quali aspetti di Vic vorresti che venissero maggiormente trasmessi nel lettore del libro.
Kristin Hersh: “Sono grata a Hips And Makers per avermi dato la possibilità di sviluppare una carriera all’insegna del suono acustico, in quanto è così che ho conosciuto Vic. Era come aver speso la mia vita intera sapendo di essere un alieno e poi incontrare qualcuno dal mio stesso pianeta. Andammo in tour insieme per dieci anni, ogni tanto. Il suo miglior lavoro è soprattutto quello non ascoltato, sicuramente, come tutta la grande musica, il quale in qualche modo rende tutto più personale e speciale. Lui amava la mia band noise rock, 50 Foot Wave, e penso che così è come il suo cuore suonava per davvero. Rumoroso e libero. Spero che adesso lui viva così, dall’altra parte. Perché così era il nostro sogno: vivere rumorosi e liberi”.
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