Andrea dedicava loro un’attenzione particolare. Quei palloncini, pensava, erano la parte più interessante della festa. Se non altro erano colorati. Rossi, blu, gialli… E quelli verdi! Gli occhi di Virginia possedevano esattamente la stessa tonalità: un verde acceso, quasi finto. Ma almeno loro non abbassavano lo sguardo se li guardavi troppo a lungo.
Di quei palloncini, i ragazzi ridevano. Ridevano anche della playlist, vagamente straniante, sicuramente anacronistica. Su Centro di gravità permanente, Guido aveva cominciato a esprimere il proprio disappunto; dapprima con frasi brevi e risolini, poi ad alta voce, cercando il consenso della folla: “Bella festa, davvero. Mi sembra di avere 11 anni”. Guido era quello che in classe lanciava gli aeroplanini di carta e che saltava sempre la prima ora: il destino di Virginia era segnato per almeno il resto dell’anno.
Perché prestarsi a una simile umiliazione? Non che fosse mai stata una ragazza popolare, ma una festa simile non avrebbe mai dovuto organizzarla… Perché l’aveva fatto? Per celebrare il funerale pubblico della propria reputazione? Povera Virginia, così ingenua…
“Io e una mia amica abbiamo scommesso su quanti anni hai”
La ragazza era palesemente anoressica. Il tubino nero rimaneva rigido su una fragile impalcatura d’ossa. Non era male, però. I capelli neri erano veramente neri e sul viso pallidissimo creavano un contrasto ammirevole. Apparteneva alla pericolosa categoria del ‘sei bella nonostante i tuoi evidenti difetti’.
“20”
“Ho vinto io”, e cominciò a ridacchiare.
La sua amica al contrario era robusta e una massa di capelli stopposi si sollevava sul cranio senza un apparente criterio: come un mazzo di malerba. Una smorfia d’autore le comparve sulla boccuccia rivelando una naturale e collaudata propensione alla sconfitta.
Andrea rimase a guardarle allontanarsi. Le gambe della ragazza anoressica erano due stuzzicadenti: resistette a stento dal tirare loro un calcio per tastarne la fragilità.
Ora nella stanza risuonava la voce di Eros che cantava Sei un’invasione tu un vulcano di allegria miele d’ambra che mi dà nuova energia.
Che festa patetica. Era venuto perché l’aveva invitato la madre di Virginia e perché non aveva nulla di meglio da fare. Sarebbe rimasto a casa come tutti i venerdì sera. Il venerdì sera di solito si concedeva un film e una birra; una Peroni, probabilmente, visto quanto costavano: la confezione da tre, alla Pam, era spesso in offerta. Ah, ma le cose sarebbero presto cambiate. Quella vita non gli andava più. Gli amici le discoteche le corse in macchina le canne di fumo e di tanto in tanto i vini acidi degli agriturismi: tutto questo gli dava una noia che si sentiva morire dentro. Provava come un distaccamento da sé, uno sdoppiamento; guardava il proprio corpo muoversi su una linea temporale che scorreva monotona eppure velocissima. Dove finivano le giornate? Correvano troppo veloci… Si perdevano in uno spazio che non era neppure quello del ricordo. In una fossa comune, ecco: marcivano sotto un lastrone di desideri e pulsioni che ne spazzavano via ogni memoria. Avrebbe voluto seppellirle con tutti gli onori… Ma non ne valeva la pena.
La madre di Virginia si aggirava per la sala con aria soddisfatta. Solo di rado storceva il naso: c’era un festone che proprio non voleva saperne di rimanere incollato al muro. Andrea la vide voltarsi e cercare qualcuno con lo sguardo. La vecchia scema! Cercava lui, sicuro.
La sua gamba fece uno scatto come per allontanarsi, ma il resto del corpo non la seguì. Aveva il bicchiere di Coca Cola da finire e la parete sulla quale si appoggiava era piacevolmente calda. Finalmente, la madre di Virginia lo avvistò e gli andò incontro col tipico passo barcollante.
“Andrea!”
“Signora Maria…”
“Ti stai divertendo?”
“E’ che non conosco nessuno”
“Ma come, e Virginia?”
Si voltarono quasi contemporaneamente verso la ragazza. Si trovava tra un gruppetto di amiche che parlottavano alle spalle di un tipo alto con un ciuffo di capelli che lo elevava palesemente al di sopra degli altri. Virginia era l’unica che non parlottava. Sembrava a disagio e nascondeva spesso il viso dietro il bicchiere di plastica. La voleva smettere? Non lo sapeva che bere tanta Coca Cola le avrebbe rovinato il fegato?
“E’ bella, vero?”
Bella era una parola forte. Anzi, bella non lo era affatto; eppure ad Andrea era piaciuta da subito, sin da quando suo padre gli aveva detto che sarebbero andati in vacanza al mare con la famiglia di un suo collega. Lì l’aveva spiata mentre si cambiava il costume dietro a uno scoglio.
“E’ degna della sua mamma”
La donna rise forte.
“Senti, mi dovresti fare un favore”, gli disse con le guance ancora rosse. Gli spiegò il da farsi e si allontanò con l’aria di chi non capiva che così, sua figlia, la voleva morta e sepolta.
Andrea si mosse e rimpianse subito la parete calda e famigliare. Nel centro della stanza faceva più freddo e alcuni ragazzi ballavano con evidente sarcasmo una canzone di Vasco. Una bottiglia di plastica piena di un qualche beverone non autorizzato passava di mano in mano. Chiese loro di berne un goccio, quelli acconsentirono e lui ne buttò giù un lungo sorso. Bruciò per un po’ poi smise, quindi guadagnò l’altro lato della sala e si posizionò accanto all’interruttore.
Virginia gli piaceva perché era timida, erano due timidi, a malapena si erano mai parlati. Il venerdì sera, dopo il film e la Peroni, ripensava a lei dietro lo scoglio e il resto veniva da sé. Anche ora non poteva fare a meno di pensarci. La guardava rimanere muta tra le sue amiche, la immaginava nuda sotto quel ridicolo gonnellino e quella ridicola camicetta. Da nuda, ne era convinto, non era per nulla ridicola: anzi, da nuda appariva assolutamente credibile. Il ciuffo nero tra le gambe lo possedeva anche lei… Proprio come tutte le altre donne!
Ecco, ora toccava a lui.
Spense la luce e gli invitati cominciarono a gridare come gli stupidi bambini che erano. Anche lui si considerava uno stupido bambino ma almeno non gridò. Dal fondo della sala cominciò ad avanzare la torta. La luce delle diciassette candeline tremava sul faccione della madre di Virginia; doveva aver ingaggiato qualche altro disgraziato che facesse partire la musica al momento giusto perché le note di Tanti auguri a te piombarono sui presenti con la solita, brutale mancanza di tempismo. Le labbra cominciarono a muoversi involontariamente e, mentre cantava quell’orribile motivetto, Andrea sentì su di sé lo stesso imbarazzo che doveva provare, in quel momento, Virginia. Guido fu il più spietato. Quando venne pronunciato il nome della festeggiata, prese a fare pernacchie e a urlare oscenità. La madre della ragazza era invece al settimo cielo: cantava a squarciagola ogni singola sillaba, fiera della sua creatura che quel giorno compiva diciassette felicissimi anni. Quella canzone era il male… Tanto quanto la peste o il colera! E Virginia? Nel buio della sala era sicuramente pallida. L’immagine di lei gli occupava la fetta del cervello che non era abituato a ignorare; difatti, non la ignorò. Le avrebbe stretto la mano, le avrebbe accarezzato la guancia… Ma era là, all’altro lato della sala. Povera Virginia! Allungò un braccio comunque, chissà che quel gesto sarebbe bastato… Ma non bastò e lo lasciò ricadere.
Le candeline illuminarono il volto irregolare di una diciassettenne, le sopracciglia spesse, il naso piccolo e sgraziato. Le fiammelle tremarono un po’ sulle sue guance piene: servirono tre soffi per farla tornare nel buio.
Due giorni dopo, Virginia fu trovata morta nel letto di camera sua. Si era sparata con la pistola di suo padre, poliziotto di cinquantadue anni, dritta in bocca.
Andrea la pensò nuda dietro lo scoglio ancora una volta, poi smise.