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Recensione : La guerra del pallone. Storie di vita e calcio in Palestina di Gabriella Greison

Scopri il calcio in Palestina con 'La guerra del pallone'. Una realtà sconvolgente, tra speranze infrante e ostacoli mortali. Un libro che illumina l'ombra.

La guerra del pallone. Storie di vita e calcio in Palestina di Gabriella Greison

Non c’è nulla di quella che, nel nostro occidente civile e tecnologizzato, chiamiamo “normalità” in Palestina. Nemmeno lo sport, e in questo caso il calcio. Ce lo fa capire immediatamente Gabriella Greison, sin dalle prime pagine del suo “La guerra del pallone. Storie di vita e calcio in Palestina“. Il suo racconto è allucinante, e sembrerebbe letteratura distopica, se non fosse tutto tremendamente vero. Basterebbe solo evitare di girarsi dall’altra parte, come siamo tristemente soliti fare, tutte le volte che approcciamo un argomento che sappiamo essere in grado di minare le nostre certezze e le nostre convinzioni. Come detto, è tutto chiarissimo, anche se a noi piace nasconderci dietro alle censure che, lo stesso occidente di cui sopra, mette puntualmente in atto, per non rovinare quell’immagine idilliaca del “povero stato di Israele ostaggio dei popoli che lo circondano e lo minacciano”, ma dimenticandosi del trattamento indegno, disumano e disgustoso, che a sua volta applica alla popolazione palestinese.

Il nostro non è, non vuole e non può essere il tentativo di spiegare i perché di un conflitto che si perde nella storia. Siamo qui solo per celebrare Gabriella Greison e il suo “La guerra del pallone. Storie di vita e calcio in Palestina”. Un volume che merita non solo di esser letto, ma che deve trovare una distribuzione capillare, in modo da far luce su tutto quello che continua a passare sottotraccia. La quotidianità a certe latitudini è un concetto che a noi sfugge, molto più volutamente di quanto non siamo disposti ad ammettere. Una partita di calcio, un evento che per noi “occidentali” si configura come un qualcosa di assolutamente “normale”, in Palestina assume tutt’altro significato. Le difficoltà organizzative, di gestione degli spostamenti, degli impianti, delle risorse, e, non ultima, la sicurezza dei calciatori, sono messe in crisi da tutta la barbarie che Israele continua a imporre in nome della “sicurezza”. Senza contare che, spesso, anche solo l’idea di riuscire a organizzare una partita di calcio, finisce per diventare la scusa per tutta una serie di meccanismi di ritorsione a carico, e a danno, dei più deboli.

Se il calcio è inquadrabile come il veicolo per sognare un domani diverso, per taluni resta solo un sogno irrealizzabile. Ce lo testimoniano le parole della Greison, che ci portano dentro ad una realtà che, pur sapendo tangibile, non riesce ad intercettare il nostro sdegno, se non durante le fasi più accese dei conflitti che infiammano la striscia di terra intorno a Gaza. Per un popolo, quello palestinese, che vorrebbe soltanto vivere a suo modo, secondo le tradizioni che si tramandano di generazione in generazione, il calcio deve essere visto come lo strumento che, oltre a scuotere le coscienze appassite di noi europei, e attirare l’attenzione su quello che accade, mostri anche a chi abitualmente non ha confidenza con le vicende belliche, il volto (volutamente) nascosto delle atrocità cui è da troppo tempo costretto.

La situazione per i calciatori palestinesi è surreale. Tra allenamenti spostati all’estero, riunioni in sedi improvvisate con il rischio di finire sotto le bombe, spostamenti condizionati da interminabili file ai checkpoint, organizzare e disputare una partita è un’impresa titanica. Capita che servano oltre 24 ore per riuscire a raggiungere lo stadio di destinazione. 24 ore trascorse in viaggio, tra checkpoint, controlli, strade inagibili, allarmi bomba, assalti e soprusi, il tutto su mezzi improvvisati e per nulla sicuri. Senza contare che poi allo stadio non tutti avranno modo di assistere alla gara. Le restrizioni a cui sono soggetti i palestinesi non garantiscono alcun diritto in questo senso. Senza contare che spesso si tratta di gare di sola andata. Mancano infatti le condizioni per poter pensare di riuscire a uscire dai territori occupati per disputare il ritorno. Si capirà solo al momento se, e come, si potranno varcare i numerosi checkpoint.

A livello internazionale le federazioni internazionali sembrano non mostrare alcun interesse per le vicende che la Greison racconta nel suo libro. Ci si limita a prendere atto di ciò che accade, ma nessuno si sogna minimamente di dare un segnale forte, che possa scardinare le certezze di Israele. Sono tutti presi dall’inseguire i dollari degli emirati, che si stanno comprando il pianeta da un punto di vista sportivo. Della Palestina interessa veramente a pochissimi. Il calcio è diventato un business, un prodotto da vendere, e quello palestinese è un prodotto di seconda mano, che non attira compratori.

Resta quindi l’unica certezza. Quella che relega il popolo palestinese ad un insieme di persone che non riesce a trovare nulla a cui attaccarsi per poter sperare in un domani, se non migliore, almeno diverso. Li abbiamo privati anche della gioia di giocare a calcio. E pensare che per loro non conta minimamente il risultato sportivo. La partita in sé non ha senso, la festa è sugli spalti, dove i fortunati che riescono ad accedervi, riescono finalmente ad incontrare i propri familiari, i propri amici, senza pensare per 90 minuti alle bombe che cadono sulle loro teste.

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