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Recensione : Le libere donne di Magliano di Mario Tobino

Negli anni precedenti l’età degli psicofarmaci e della riforma Basaglia, un medico vive in un reparto psichiatrico femminile. Le libere donne di Magliano di Mario Tobino.

“Le libere donne di Magliano” di Mario Tobino, edito da Mondadori

Negli anni precedenti l’età degli psicofarmaci e della riforma Basaglia, un medico vive in un reparto psichiatrico femminile.

Questo romanzo – scritto dal 1950 al ’52 – nasce dalla rielaborazione delle cartelle cliniche compilate nel manicomio di Maggiano, diretto per anni dallo stesso Tobino, e racconta il tentativo dell’autore di umanizzare la vita del manicomio condivisa con le proprie pazienti.

 

Potrete leggere passaggi come questi:

 

  • “Le agitate” è il reparto più vivo, violento e sincero. Per andarci si scendono delle larghe scale, si percorre un vasto corridoio che sfiora giardini e siamo alla sua porta. (…) Il manicomio è pieno di fiori, ma non si riesce a vederli.
  • Fuori c’è la vita, la gioventù, la bellezza, la gioia che ride; e qui mille matti rinchiusi, prigionieri dei loro deliri, sudati, sporchi, poveri.
  • Le suore fanno sempre discorsi a seconda che la Superiora ha detto loro come pensare oppure non gliel’ha ancora detto. Quando succede qualcosa in manicomio, dapprima ogni suora commenta liberamente e secondo il proprio animo e cervello, e in dipendenza delle passate esperienze. Come la superiora le ha avvertite quale sia il commento favorevole alla loro Comunità, a loro Suore, allora diventano come un esercito tedesco e ripetono tutte le stesse parole, non ce n’è una che fuorivia. Il bello è che quando prima facevano i commenti sinceri, nati da loro stesse, parlavano con sicurezza ma con quella umana veemenza disposta al ragionamento e alla persuasione. Come la Superiora ha stabilito come devono pensare allora si farebbero scannare ma non cambiano una sillaba di ciò che è favorevole alla Comunità. Fedelissimi soldati, capaci di dimenticare ogni altro e vedere soltanto la Verità del loro esercito, liete di ogni cosa per quello e sincere.
  • Sotto la finestra della mia camera c’è una breve aiuola che la Lella coltiva di garofani facendone un gran parlare e un poco di fatica, che li cova anche con gli occhi e quando ne sboccia uno lo annuncia con voce acuta. Ieri sera proclamò che quattro insieme ne stavan per sbocciare. Stanotte li hanno rubati. Deve essere stata la suora della chiesa o la suora di notte. M’è venuta acuta irritazione contro le monache che sono così spesso fanatiche (…).
  • In questo momento, otto di sera, (…) è entrato un ammalato: solita fuga delle idee, solito piacere non veramente gustato a dir tante parole, soliti deliri, e al solito la manifestazione di ciò che è più sentito in una persona: in questo malato l’orgoglio di essere stato capitano dell’esercito, di aver comandato, di essere stato ubbidito e temuto da altri uomini.
  • Domani dunque ancora una volta vedrò la processione del Corpus Domini del manicomio. Tutti gli anni, al di fuori di quelli della guerra, ho visto, da quando son laureato, la processione dei matti (…) quello sfilare di folli dietro i preti ammantati (…). Ogni anno i matti, dietro il baldacchino, frastornati dai loro deliri, reietti dalla società, seguono in due file. Io, dietro le persiane, guardo.
  • La processione si è svolta placidamente e non è mancata la predica del frate dal terrazzo dove, ai tempi del Duce, si facevano i discorsi ai fascisti. La scena del discorso del frate davanti ai matti e alle matte e ai contadini dei dintorni del manicomio, vestiti a festa, se sofferta nella sua ironica-tragica realtà, avrebbe potuto essere un grande quadro. Non mancava nulla della stupidità umana, galleggiavano i sette vizi capitali, l’ipocrisia e l’ambizione in tal modo si davan l’abbraccio che era una morsa, la mediocrità era il sovrano, la servitù strideva acutamente. (…) Il frate dal terrazzo, la barba puntuta come un sesso setoloso, abbaiava spergiuri.
  • È morta la signora Alfonsa. Non aveva più nessuno al mondo. Stamani la portano via. (…) Per la signora Alfonsa è stato stabilito che noi medici faremo dir delle Messe. Ho domandato al cappuccino il prezzo, mi ha risposto glaciale: “trecento l’una”. La signora Alfonsa ha servito innanzi tutto il cappuccino. La signora Alfonsa sfinendosi a lavorare, dall’alba fino a notte, prendeva, come ricompensa 25 lire al mese.
  • La nostra storia (primo cinquantennio del secolo) è fatta di guerre, intrighi, dittature, di attenzioni e paure, la vita per noi è stata oscura (…).
  • Erano i primi tempi del fascismo: 1920-21-22, anni per tanti aspetti di tumulto generoso, anche se poi dovettero far sprofondare i seguenti nel buio, anni dove la gagliardia si accompagnò alla cecità.
  • La mia vita è qui, nel manicomio di Lucca. Qui si snodano i miei sentimenti. Qui sincero mi manifesto. Qui vedo albe, tramonti, e il tempo scorre nella mia attenzione. Dentro una stanza del manicomio studio gli uomini e li amo. Qui attendo: gloria e morte. Di qui parto per le vacanze. Qui, fino a questo momento, son ritornato. Ed il mio desiderio è di fare di ogni grano di questo territorio un tranquillo, ordinato, universale parlare.
  • Il dottor Rovetti (…) era figlio della compassata burocrazia, dei petti impettiti senza valore ma pur tuttavia superbi dell’amido, e che non sospettano che altrove è la verità, l’eterno slancio della vita.
  • Cosa significa essere matti? perché si è matti? Una malattia della quale non si sa l’origine né il meccanismo, né perché finisce o perché continua. E questa malattia, che non si sa se è una malattia, la nostra superbia ha denominato pazzia.
  • (…) è stolto crederci superiori perché una persona si muove percossa da leggi a noi ignote.
  • Venivo dalla Libia, dove ero stato due anni, e, forse, il contrasto della vita italiana con l’immobile spettacolo del deserto e della morte inutile, benché ufficialmente non apparisse mi aveva fatto molto più sensibile, acuto, e prontissimo al perdono (…).

 

Cos’altro dire?

Allo scoppio della seconda guerra mondiale, Mario Tobino viene richiamato e inviato sul fronte libico dove rimane fino al 1942; esperienza raccontata nel romanzo “Il deserto della Libia” da cui sono stati tratti due film, “Scemo di guerra” di Dino Risi e “Le rose del deserto” di Mario Monicelli.

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