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Recensione : Le Piogge

Le Piogge: Cercava l’autunno in ogni angolo di paese, ad esempio nei muri ocra delle case del centro; ma era estate, e non bastava....

Cercava l’autunno in ogni angolo di paese, ad esempio nei muri ocra delle case del centro; ma era estate, e non bastava. Il sole avvampava con foga eccessiva, quel sole iperattivo che non si stancava mai, non come il sole d’ottobre che si spalma piano, senza fretta, limitandosi a sbiadire sugli aperitivi dei pochi eroi mai domi. Un crodino, uno Spritz, Bankes tonica una fetta di limone: si butta giù la noia, meglio se ghiacciata; ma rimane sul fondo del bicchiere, è quell’intruglio torbido che si agita con la cannuccia.
Saliva quindi sulle colline dove i sentieri vengono abbandonati. Gli alberi carichi di albicocche, i cespugli grassi da scoppiare, le mosche, i tafani, mostri dagli occhi verdi grandi come le monete quelle con la Mole Antonelliana. Erano sfrontati: gli ronzavano attorno e non sembravano minimamente intimoriti dalle manate tirate un po’ a casaccio. Anzi, più le manate si facevano veementi, più i tafani ci prendevano gusto e quasi si lanciavano contro le sue braccia nude, le sue gambe, a volte persino sulla sua fronte ampia. Era estate anche sulle colline, palese come il sole che bruciava alto.
Dell’autunno gli mancavano le spiagge vuote, le piogge fini e diritte, ovviamente i colori, forse le merde calpestate nelle pozzanghere, sicuramente i cappotti scuri, le arance, il ridotto consumo di cocktail, le nuove stagioni delle serie tv, il campionato di calcio. Ciò che invece non gli mancava erano cose del tutto personali, che c’entravano troppo con la sua incapacità di stare al mondo e soprattutto col suo coraggio. Tanto per dirne una, non gli mancava la solitudine che l’autunno amplificava. Riconosceva però che la solitudine autunnale è la più perfetta, e sì che ci stava male, ma concettualmente… No, non voleva pensarci: le spiagge vuote, le piogge fini e diritte, i colori delle foglie, i cappotti scuri e persino le merde calpestate nelle pozzanghere erano in grado di compensare quella solitudine perfetta, totalizzante, spaventosamente feroce.
Più di tutto, comunque, gli mancavano le piogge acide.

L’autunno venne anche quell’anno e gli parve uno degli autunni più belli che avesse mai vissuto; ma forse era tutta una suggestione: ogni autunno era più bello e colorato del precedente, se ci pensava bene. La puntualità con la quale le foglie cominciarono a ingiallire ebbe del miracoloso: la mattina del 23 settembre gli sembrò infatti che le foglie degli aceri avessero perso quella brillantezza che possedevano ancora intatta – e su questo non c’erano dubbi – soltanto il giorno precedente. Seguirono giorni indimenticabili fatti di passeggiate sulle spiagge sgombre da cabine, passeggiate tra i boschi, passeggiate a scoprire strade mai calpestate sinora; camminare gli piaceva molto, d’autunno, e camminava piano. In tv cominciarono a parlare delle piogge. Come al solito, all’inizio erano solo congetture, un gioco di date, il ventisei ottobre no il dieci novembre, ma presto i meteorologi cominciarono a venirsi incontro, gli estremi ad avvicinarsi, fu stabilita una settimana certa, incontrovertibile, ed era la prima di novembre. Lui non era il tipo da segnarsi le date sul calendario, ma cominciò a inquietarsi e a sperare che novembre arrivasse in fretta.

Autunno era anche il mese dei propositi falliti. Come reazione alle intemperanze estive, si era prefissato di smettere di fumare o almeno di fumare meno, di trovare una stabilità emotiva sentimentale, di ridurre il consumo di alcolici, di cercare un lavoro col quale svernare in tranquillità, di studiare le lingue, di imparare a memoria le province italiane, di leggere i capitoli di Rayuela nell’ordine suggerito da Cortàzar e tutta un’altra serie di cose insignificanti ma davvero fondamentali considerando la fatica con la quale i ventiquattro anni di età erano stati raggiunti. Se alcuni di questi propositi si erano limitati a fallire dopo tentativi a dir poco velleitari – anche per colpa della Lombardia, chiariamo: dodici province sono veramente troppe – altri si erano rivoltati contro di lui come per reazione alla reazione. Il numero di sigarette fumate aumentò dopo una memorabile giornata di digiuno, quello dei bicchieri di birra subì un incremento naturale e necessario, conseguenza delle passeggiate e delle sigarette. Tra le numerose sconfitte, una vittoria: Agnese accettò di uscire con lui. La portò in alto, al santuario che dominava il mare. Era già ottobre inoltrato, eppure sudarono lo stesso. Durante la salita parlarono poco perché il fiato mancava e la nebbia faceva degli arbusti storti una parata di manichini muti di cui loro necessariamente si sentivano parte. Raggiunta la vetta, prese a scendere quella pioggia leggera e diritta che a lui piaceva tanto: la odiò perché nascondeva il mare, perché non era quello il posto in cui avrebbe voluto portarla. Agnese gli disse qualcosa di molto lungo il cui concetto era che fino a una certa età non poteva sopportare che la pioggia la bagnasse, ora invece era tutto diverso, non era più un problema, anzi, si sentiva viva sotto la pioggia, disse proprio così. Lui provò una certa delusione – ma come, si sentiva viva sotto la pioggia? Avevano aperto i casting per il nuovo film di Bertolucci? – ma presto si vergognò di quella delusione e, anzi, trovò quella frase sensatissima, così tenera e sincera che trovò il coraggio di spingere Agnese contro il muro del santuario per darle un bacio insapore ricambiato con generosità. Si misero quindi a guardare il mare sotto la pioggia nonostante il mare non si vedesse. Lei gli disse che la prima settimana di novembre potevano, dovevano tutti rifugiarsi da lei, nella sua casa in provincia di Monza.
Monza, Brianza, quinta provincia lombarda per popolazione. Lo ricordava ancora, forse non tutto era perduto.

Mancavano tre giorni a novembre, lui passeggiava nuovamente solo. Se si erano accorciate le giornate… I lampioni illuminavano le vie sprofondate nel buio tipicamente autunnale, quel buio a cui ci si abitua con una certa riluttanza ma che alla fine ti prende per insistenza. Delle persone che incontrava ne salutava poche, un sorriso e poco più, a volte un segno con la mano, altre nemmeno quello, gli occhi subito bassi, come si vergognasse. Erano nervose, lo vedeva, eppure lui si sentiva tranquillissimo, rilassato, praticamente un maestro Zen. Abbassava lo sguardo perché gli pesava.
I giardinetti erano già stati fasciati. Un bambino guardava immusonito lo scivolo impacchettato; la madre lo teneva per mano, dispiaciuta ed esausta. Possibile che le precauzioni fossero state prese con un così largo anticipo? Pareva proprio di sì. Prevenzione, lungimiranza, buon senso: si inaugurava il circo delle parole alla moda, parole magnifiche che ai giornalisti bastava pronunciare per raggiungere quella profondità di pensiero ambita dai tempi dei temi scolastici, tipologia b.
Rincasò, lo aspettavano per cena. Si sedette al suo posto e la madre posò sul tavolo una teglia di frittata di spinaci. Suo padre aveva già divorato una scatoletta di sgombro. Disse loro che avrebbe passato la settimana successiva a casa di Agnese, vicino a Monza. Raccomandazioni d’obbligo, d’altronde erano i suoi genitori. E voi che farete? Gli parve giusto chiederlo, a volte si sentiva così comunicativo. Andiamo da amici. Da Giovanni? No, da Monica ed Enrico. Ah, da Monica ed Enrico. Già. Sparecchiò, vide metà di un film in bianco e nero, lesse tre pagine di Rayuela, inviò una foto indecente ad Agnese, si mise a dormire. Sognò tuoni e fulmini, ma non pioveva; sulle finestre batteva qualcosa, ma lui ne era convinto, non pioveva.

La casa era grande il necessario. Tre camere da letto, un divano morbido, una cucina due bagni insomma tutto ciò di cui avevano bisogno. Mancava il garage, questo sì, per cui posteggiarono le auto nel cortile sterrato e le coprirono con i teli che avevano portato. Avrebbe piovuto due giorni, tre al massimo.
Elia si era preoccupato che non rimanessero a bocca asciutta. Dal bagagliaio tirò fuori tre casse di birra, due bottiglie di amaro, cinque di vodka, quattro di gin, tre di rhum più una vasta scelta di analcolici per soddisfare la sua arte miscelatoria. Non avevano neanche posato le valige che già tenevano in mano una birra ciascuno, anche chi la birra non la beveva.
Avrebbe dormito con Agnese, e l’idea gli piaceva. L’avrebbe abbracciata stretta per cinque minuti, poi si sarebbe distaccato un poco, prima le gambe, poi il ventre, un braccio, per ultime le dita, la separazione completa prima di rifugiarsi nel suo angolo di letto a fingere di essere solo.
La notte si concluse esattamente così. Ma prima, lei gli andò sopra e lo eccitò a tal punto che nemmeno ebbero il tempo di scambiarsi i ruoli. Prima ancora, tutti e sette si ubriacarono in cucina. Avevano giocato a dadi, chi perdeva il turno beveva alla goccia un liquido incredibilmente poco appetibile, ricetta segreta di Elia. Da non crederci quant’era forte: era riuscito nell’impresa di accrescere la competitività che in quei giochi latitava sempre. Anna finì in bagnò a vomitare, Pietro nemmeno lo raggiunse. Sporcò il pavimento della cucina e tutti rimasero stupiti da quanta pasta avesse mangiato: una porzione abbondante, mica come la loro. Nessuno comunque si sentì di infierire.
Nel suo angolo di letto, ripensò alla serata trascorsa. Bere fino a stare male era un’occupazione dal fascino indiscutibile, eppure ricordava i primi anni con una nostalgia che gli faceva male. I suoi lo avevano lasciato libero di passare con chi voleva il periodo delle piogge a partire dai diciotto anni, come praticamente succedeva a tutti. Solo qualche fortunato aveva guadagnato quell’autonomia verso i sedici/diciassette, e d’altronde erano gli stessi che se aprivano il frigo potevano contare costantemente su un bel bottiglione di Coca Cola: insomma i più viziatelli. Avevano sempre bevuto tanto, forse troppo, chissà che non fosse una questione di moda. Il periodo delle piogge si passava così, a stringere rapporti con l’amico rhum, a blandire il simpatico gin. Ma se prima veniva tutto spontaneo, ora l’incanto era rotto e i bicchieri dosati con un’annoiata prudenza. Pietro e Anna non contavano, loro avevano ancora diciotto anni e li avrebbero sempre avuti; o magari un giorno si sarebbero svegliati maturi, avrebbero scoperto il giardinaggio o abbracciato il veganesimo e addio imprudenza, addio cirrosi epatica: profeti della moderazione, ecco cosa sarebbero diventati. Eppure non era solo questo… L’alcool c’entrava sino a un certo punto. L’idea che più ingombrava quell’angolo di letto e che gli toglieva il sonno, era la perduta rivalità, la scomparsa della competizione. Quanto rimpiangeva starci male per una ragazza che non valeva nemmeno la pena abbracciare… Ma chi la abbracciava per primo aveva vinto, funzionava così, adeguarsi o morire d’invidia e di seghe.
Nel suo angolo di letto, ripensò a tutto questo. Agnese non russava nemmeno, sembrava non respirasse. Si concentrò sul soffitto, una massa meno scura rispetto al resto della stanza, e quanto girava. Aspettò che si stabilizzasse, ma niente; allora si alzò e tornò in cucina. Pietro era steso sul divano, la bocca oscenamente aperta rubata dalla più brutta immagine del bestiario più brutto. Si avvicinò alla finestra che si affacciava sul cortile. Un ticchettio sul vetro; dapprima leggero, poi insistente.
Pioveva.

Tutto sommato, fu una delusione. Finì di piovere a mezzogiorno del quarto giorno. Nel mezzo, le solite giornate passate a terminare le scorte alcoliche, a fumare, a guardare programmi nei quali attori scadenti fingevano di separarsi nelle maniere più tragiche possibili. Il momento più alto fu raggiunto quando Pietro perse una scommessa e dovette tenere la mano fuori dalla finestra per una decina di secondi. Quando la ritirò, era di un rosso fosforescente. Anche lui ci aveva provato, anni prima, ed era stato come infilare la mano in un mazzo d’ortiche. La pelle guariva in una settimana.
Aveva anche capito quanto fosse scarso ai videogiochi. Se si dovevano sparare, la sua testa era quella che saltava per prima; se si trattava di calciare un pallone, la sua fase d’attacco si manifestava in tutta la sua sconcertante sterilità. Il campione era Matteo, sembrava nato per quello.
Sette i film guardati, scelti secondo un metodo democratico assolutamente fallimentare. Sì che ognuno aveva proposto il proprio, ma dopo venti minuti di Elephant chi dormiva, chi aveva un urgentissimo bisogno di andare al bagno, chi si perdeva nella ricerca del selfie perfetto. Solo Agnese si era mostrata interessata, ma si vedeva che era tutta una messinscena. Pensava l’avrebbe rincuorato? Beh, si era sbagliata.
Aveva deciso di rompere con lei. Avrebbe aspettato il ritorno a casa, forse avrebbe atteso l’inverno. Agnese era tanto cara, lo era per davvero, e il rosso vivo dei suoi capelli brillava nella penombra come quelle sorpresine che si trovano – se sei fortunato – negli ovetti di cioccolata. La prima volta che si era spogliata aveva posseduto il fascino degli eventi irripetibili al pari delle eclissi solari dei giubilei della vittoria italiana ai mondiali di calcio. Gli parve un privilegio poterla vedere timida e nuda, abbracciare i suoi impacci… Ma pensate a un mondo in cui le eclissi solari si susseguono di settimana in settimana. Era tanto cara Agnese, tanto cara.
Brindarono alla fine delle piogge. Attorno al tavolo fasciato in una tovaglia dal tema tazze e ciambelle, sei bicchieri vennero sollevati ognuno con un tempo diverso. I calici furono svuotati in tempi record, posati alcuni sulle tazze, alcuni sulle ciambelle; poi tutti a rilassarsi in sala.
Lui si lasciò cadere sul divano. Agnese gli si stese accanto, la testa posata sulle sue gambe. Mentre le accarezzava i capelli, si guardò intorno. Elia si prendeva cura delle bottiglie superstiti: le annusava, le osservava in controluce, versava dosi a casaccio nello shaker che tra le sue mani veniva scosso forte. Quando la pozione era pronta, la assaggiava con piccoli sorsi simili alle beccate degli uccellini. Gli occhi piccoli e neri s’illuminavano e il verdetto era sempre favorevole: questa, signori, è l’arte della miscelatura; quindi nuovamente ad annusare a osservare a scuotere. Pietro lo guardava, stordito dai bagordi di quelle giornate e dai plum cakes alla marijuana cui tanta dedizione aveva riservato. La bocca era semiaperta, le pupille perse in una realtà tutta sua dove Hitler faceva l’amore con Sailor Moon e una genia sterminata di scoiattoli multicolore predicava la pace nel mondo. Nel frattempo, Matteo – manco a dirlo – sfidava il Barcellona col suo Milan. Vinceva due a uno all’ottantasettesimo, ma quando Messi incrociò un tiro perfetto dal limite dell’area, il joypad volò a un centimetro dall’orecchio di Anna che fumava una sigaretta solitaria sulla comodissima poltrona di pelle. Si dissero qualcosa di irripetibile, e se la tesi di Anna virava sulla pazzia, per Matteo era tutta una questione di cattivo sviluppo: gioco di merda, gioco di merda! Sembrava dovesse denunciare la casa videoludica da un momento all’altro. Chi mancava? Ah già, Roberta agonizzava di sopra, nel letto, lottando contro un’attività ovarica per cui aveva scomodato l’aggettivo terroristica.
Quel quadro era sconfortante. Smise di accarezzare i capelli di Agnese, le sollevò piano la testa per non essere scortese, si alzò in piedi. Un raggio di sole filtrava dalla finestra. Mentre girava la maniglia del portone, sentì gli occhi di tutti puntati sulla sua schiena. Le conosceva le regole, lo sapeva che veniva sconsigliato di uscire di casa se non dopo otto ore dall’ultima goccia: le piogge acide sono eventi imprevedibili, non sono rari i casi di rovesci improvvisi dopo la prima schiarita. Non gli interessava. Aprì il portone e uscì nel cortile.
L’autunno era terminato, o almeno l’autunno che amava. Sugli alberi, non una sola foglia superstite. Il terreno era una palude fumante di poltiglia marrone: la calpestò con gioia quasi infantile. Dovevano essere lì, da qualche parte. Indagò sotto i tronchi grigi e butterati. Che bestie magnifiche, le piante: cinque mesi e avrebbero ripreso a sbocciare come le sporche puttane agghindate che erano. Ai piedi del pioppo più alto e scheletrico, ne trovò due; sotto un salice tumefatto, quella che sembrava un’intera famigliola. Si accucciò per guardare meglio. I loro piccoli corpi erano ridotti a un ammasso informe di cartilagine biancastra, le ossicine appuntite esposte al disgustoso sollazzo dei vermi che già dall’indomani avrebbero cominciato a proliferare.
Qualcuno chiamò il suo nome: era Agnese. Sulla soglia di casa, guardava preoccupato ora lui, ora il cielo che si era nuovamente riannuvolato, il raggio di sole scomparso, solamente stracci grigi e cumuli bruni all’orizzonte. Il vento cominciò a tirare, il vento che dopo le piogge era così elettrico, così secco ed elettrico, e non smuoveva niente, di certo non la poltiglia marrone che si squagliava sul terreno, non i cadaveri degli uccelli ormai incapaci di lasciarsi trasportare nei tramonti. Agnese lo chiamò una seconda volta, gli occhi quasi lucidi, chissà perché.
Arrivo, disse lui. Arrivo, un attimo ancora…

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