Dall’alto della mia infosfera, quella bolla di sapone virtuale che contiene me e il mio mondo digitale e terrestre, insomma, il mio universo vitale (ciascuno ha il suo e sempre lo ha avuto anche prima dell’avvento di internet nelle nostre vite), noto che i contenuti prodotti, affinché passino dentro le nostre sfere già zeppe di informazioni derivanti dal web, abbiano bisogno, necessitino, con impellenza bruciante, di una una presentazione adeguata, soprattutto dal punto di vista estetico.
Sempre questa estetica a farla da padrone, intendendo con essa il modo di presentarsi al prossimo per farsi accettare.
Resto incerto circa la consapevolezza intrinseca posseduta da ognuno di noi che, misurandosi col nuovo in arrivo, sappia della di lei propensione ad influenzare la nostra cognizione, affinché s’accondiscenda nel recepire quel qualcosa di estraneo a cui la nostra mente deve lasciare, o meno, il libero passaggio di circolare nella personale infosfera.
Di fatto, ciascuno è fatto a suo modo ed è la risultante di: educazione, studi, comportamenti sociali, esperienze, pensieri altrui (da cui i propri, per induzione) che ci hanno plasmato attraverso la sperimentazione, la riflessione o per imitazione, ma capaci di farci diventare quel che siamo, soggetti comunque suscettibili di cambiamento, che sia questo ampio o minimo, a seconda di quanta resistenza opponiamo agli input di pensiero esterni, alle informazioni che dal di fuori ci modificano.
Per farla breve, tornando al mio punto di osservazione, ogni contenuto mi pare deva avere una veste speciale, consona ai tempi, ben studiata e che spinga il piedino sull’acceleratore degli stilemi e dei canoni in voga proprio per essere considerata ‘nuova’ ed attendibile, riconosciuta sulla scia della modernità che naviga sfrecciante, e di conseguenza interessante; oppure anche essere interessante e di conseguenza provvista di elementi di novità, per noi che ce la troviamo sulla soglia della nostra bolla virtuale.
Lungi da me voler elaborare un saggio sull’estetica dei contenuti, ma mi accorgo che questi (il marketing non dorme mai pur di venderti qualsiasi cosa di cui tu abbia bisogno, mentre neppure te lo sognavi di avere quel bisogno, e se lo sapevi invece, che quel sogno si era tramutato in bisogno, questo doveva essere appagato a tutti i costi per tenerti calmo e placare quelle ansie da nevrotico, appunto, inappagato; ma d’altronde era il tuo sogno! Sogni di prodotti e di mercati, di pubblicità e di tecnologia, sogni che creano bisogni… irrinunciabili. Guai a non fare bisogni sempre nuovi!).
Riprendendo il filo: mi accorgo che questi contenuti aiutati dai servizi di marketing, quindi iperstudiati a tavolino, magari dopo aver usufruito di una geniale intuizione, ci giungono in una maniera troppo artefatta, estetica calibrata, per quanto possibile, d’assolvere al compito cui sono stati deputati, abbelliti da una forma atta a penetrare nei meandri delle nostre bolle psichiche e circolarvi il più a lungo possibile.
La veste di marketing che si impone ad ogni contenuto si comporta quindi come un file mp3, laddove la semplicità di fruizione paga pegno al taglio obbligato delle frequenze sonore non contemplate da quel formato di file: zac! E ugualmente si comportano pure i software adoperati dai produttori musicali, specie in questo periodo nel quale l’industria discografica si avvale di pezzi componenti virtuali (le parti singole strumentali registrate inviate by mail) che comporranno, dopo essere stati assemblati, un brano musicale, successivamente perfezionati digitalmente (cancellando l’errore umano dell’esecuzione, che spesso è valore aggiunto) proprio come fossero usciti dalla catena di montaggio della Ferrari modenese.
E così ogni cosa assume un aspetto ipercuratissimo e iperconcertato (perfetto?) per apparire trendissima e accettata da una moltitudine di persone per cui è stata pensata, cioè dalla maggioranza delle sfere psichiche in attesa di novità, onde ottenere in quegli spazi audience et imperio.
Ecco che il pensiero (ma anche l’attività) dell’umano si riduce a una corsia piatta entro cui definire il mondo e i suoi canoni estetici di accettazione, figli della proposta contenutistica, quindi relativa al contenente, da cui le persone ne filtrano, tramite la loro bolla virtuale, ne suggono e ne accreditano il potere segnatamente grazie a quel modo di presentarsi di quella certa cosa lì, e che considerano a priori, cioè forzatamente, ‘very cool’, per la quale alzano le sbarre dei propri passaggi a livello mentali.
Questo processo fatto di parametri, ovviamente taglia fuori una gran quantità di contenuti che naturalmente appartengono alla nostra vita, rinvenibili pure all’interno della nostra bolla virtuale.
La perdita di identità e l’artificiosità di un’ostentata superiorità auto-decretata (dal mercato?), demarcano il confine tra due zone distinte ma conviventi in un unico ecosistema: 1) lo scintillio della versione di sé proiettata sulla superficie della bolla virtuale, molto ‘hyper & cool’; 2) le immondizie che ivi sedimentano invece ben chiuse, laddove non spira nemmeno un alito d’aria fresca e dove acari e microbi – forse virus!!! – circolano in un ambiente viziato e ultra-mega-conservatore (dato che non si butta più nemmeno la spazzatura, da quella bollaccia marcia).
Giacché in testa deve passarci per valido uno stupidissimo contenuto ben confezionato e utile a niente, per davvero utile a niente, proprio mentre i politici del governo DRAGHI – nello stesso momento in cui noi si è ciecamente impegnati a timbrare pass per quei fichissimi ma insipidi contenuti bollari – stanno ristabilendo indisturbati il regime della Restaurazione composta da ex-reggenti matusa, valvassini di mister B. (riappare il macabro spettro mefistofelico) affrescati dalle notorie infiltrazioni cromatiche omertose, ma che in sostanza lavorano ai danni del nostro ecosistema, ahinoi reso marcescente dal nostro inconsapevole (davvero è così?) snobistico distacco: tanto, stiamo o non stiamo, noi siamo contenti così! Alla puzza di formaggio ammuffito, cresciuto nelle belle nostre bolle, ci siamo abituati da lustri e oramai assuefatti quanto legalmente tossicodipendenti di quel puzzo. Brutti puzzoni rancidi.
La biodiversità diventa meschinamente una parola a effetto che viene tirata in ballo di tanto in tanto, perché si sa che esiste una sottaciuta consapevolezza intrinseca di detta naturale varietà biologica, ma tutto sommato essa è usata per ritrarre, parliamoci chiaro, ciò che rappresenta il contenuto ‘non-esattamente-very-cool’ che si presenta (al contrario di quell’altro) per quello che è – senza schermature e proiezioni fake asservite a una bolla di sapone virtuale, schietto e diretto, proprio in quanto non artefatto.
Chiaro mi appare che tutte le cose che vedo (soprattutto via on line) siano viziate e affette da un alone perimetrale persistente di merda fritta che mi provoca dolorosi conati di vomito spirituale, sia che si parli dei miei beniamini rock del passato (sembrano marionette osannate), sia che parlino personaggi prossimi al decadimento, figli di semplicità vissute, e che oggi spaccano con l’ascia dell’artificiosa limitatezza quel sogno che io invece considero veridico, ma che non rappresenta un prodotto, né una merce, né un comportamento, una celebrazione o un egotismo che sia spendibile commercialmente o sia fattore di selfie-propaganda. Uff!
Se è vero che siamo tutti diversi, e questo fatto tangibile è universalmente accettato dai tutti, perché dobbiamo adeguarci a vivere secondo i dettami di uno stampino?
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