Titolo originale: The tomb
Anno di stesura: 1917
La tomba può essere considerato a tutti gli effetti il primo racconto adulto di Howard Phillip Lovecraft. Prima di esso sono stati recuperati solo scritti giovanili, abbozzi di scrittura, su tematiche ancora acerbe e dai temi molto discostanti dalla cifra stilistica che poi divenne il marchio di fabbrica del Solitario di Providence.
Il breve racconto, scritto nel giugno 1917, quando l’autore aveva 27 anni, è stato pubblicato nel 1922 su The Vagrant, rivista della più antica associazione dei giornalisti dilettanti.
L’incipit dalla tipologia non insolita per un certo tipo di narrativa ottocentesca (vedasi Edgar Allan Poe tra gli altri ne Il cuore rivelatore) è già fenomenale e conturbante, già catapulta con un semplice meccanismo a molla narrativo in una zona d’ombra, oscura e malata, nella sfera del disagio, dell’inquietudine, dell’oscuro:
“Nell’accingermi a raccontare i fatti che hanno portato al mio internamento in manicomio, mi rendo conto che proprio questa circostanza getterà il dubbio sull’autenticità di quello che sto per dire.”
Questo semplice espediente d’articolare l’inizio della narrazione dal punto di vista di un internato fa presagire una discesa nell’inferno dell’insanità, dell’inconoscibile, nella trasfigurazione della realtà come la conosciamo.
Jervas Dudley dal manicomio rievoca la sua giovinezza, prima da bambino e poi da giovane adulto, nella sua ricca proprietà. Di famiglia più che benestante Jervas ha la possibilità sia di non studiare che di non lavorare e quindi si dà al cupo e introspettivo girovagare nelle macchie umide e verdeggianti del bosco al limitare della magione di famiglia.
La sua ossessiva attenzione viene catturata da una particolare cripta nel bosco. La tomba di una famiglia, la famiglia Hyde, la cui casa bruciò anni prima a causa di un fulmine e i cui componenti erano tacciati delle solite “questioni innominabili” lovecraftiane, coagulo di dicerie popolane tra l’insanità congenita, la stregoneria, e i riti occulti più disdicevoli.
Jervas coverà negli anni la brama di entrare in quella tomba finché non gli capita, presso la cripta dove abitualmente soggiornava e dormiva, di avere un’illuminazione, una specie di trance psichedelica guarnita da voci terribili e suoni atavici, e quindi scopre di possedere in casa la chiave della tomba, racchiusa in uno scrigno in soffitta.
Da lì comincia l’ossessiva peregrinazione costante in quella tomba e piano piano il giovane Jarvis comincia a cambiare, acquisisce abilità e conoscenze, proprietà di linguaggio e cultura che mai aveva posseduto.
Quando scopre poi che la sua famiglia è imparentata con quella degli Hyde intuisce che deve essere lui l’ultimo discendente di quella strana stirpe e che quindi la tomba è di diritto sua.
La discesa negli inferi occulti di Jarvis si completa con un’abbacinante allucinazione (lo è veramente poi un’allucinazione?) in cui si ritrova nella vecchia casa degli Hyde, padroneggiando la bisboccia di una festa, che si concluderà col fulmine che distruggerà per sempre la casa e con le stesse fiamme che sembrano divorare la coscienza di Jarvis.
Nella cripta c’è una tomba vuota. Che quella tomba sia stata preparata per lui, per Jarvis, ultimo degli Hyde? Qual è appunto la dicitura che compare in una targa d’argento sul loculo vuoto, quel nome per il quale leggendolo in precedenza aveva provato un brivido ma anche un senso di euforia? Non è per l’appunto Jarvis?
Il fermo distacco “moralistico” dell’autore che riesce a trasmettere nel linguaggio e nelle pose al protagonista, alla voce narrante, è una delle forze narrative che fa sì che ogni accadimento “soprannaturale” seppur in forma embrionale sia di più forte impatto emotivo e assuma quella acuta connotazione orrorifica e straniante.
Risalta netta in questo racconto la dicotomia reale/irreale-sogno e vivi/defunti, legame (e coniugazione metafisica) che fa sì che entrambi i concetti, o presupposti, si possano amalgamare o interscambiare.
Il confine, insomma, ci dice l’autore, è labile. Stratagemma per inoculare l’input che sfocia nelle più svariate e basiche elucubrazioni filosofiche.
Qual è dunque il confine tra la realtà vera e la realtà immaginata?
Ovviamente l’autore non ce lo dice, non gli interessa dirlo e non interessa a noi.
La magia, la chiave di volta dell’intero oscuro immaginario fantastico, è proprio questa.