Titolo originale: Dagon
Anno di stesura: 1917
Il secondo racconto di Lovecraft, scritto nel luglio del 1917, passa anche alla storia per uno dei più conosciuti e il primo che comincia a rappresentare (almeno in nuce) la mitologia cosmica dell’autore. In questo caso la gigantesca divinità mostruosa metà pesce non è come nei casi più eclatanti, vedasi Cthulhu e progenie al seguito, di completa invenzione del nostro. Vero, Lovecraft nel creare la sua cosmogonia attinge spesso da divinità esotiche del passato, ma in questo caso vi lascia il nome, identico per l’appunto al Dagon mediorientale, filisteo e mesopotamico, rappresentato come un uomo barbuto per metà pesce.
Lovecraft ha sempre 27 anni e un mese dopo La tomba partorisce questo racconto dal semplice ma perfetto meccanismo narrativo. Lo stile a diario del racconto è quello solito: il protagonista parla in prima persona e similarmente a La tomba c’è anche l’incipit di impatto, dal forte carattere orrorifico, esca eccezionale per il prosieguo della vicenda:
“Scrivo queste note in una morsa d’angoscia e so che al termine della notte sarò finito”.
Quale miglior inizio!
Si viene a sapere immediatamente dopo che l’uomo, di cui non viene detto il nome, non ha soldi, non ha droga, la morfina, (altro particolare che insinua un certo tipo di insanità) e che presto si suiciderà buttandosi dalla soffitta in cui si trova.
Bene, da qui comincia il riepilogo delle vicende, narrate dallo stesso protagonista.
Un sovraintendente di una nave militare nel pacifico durante la Grande Guerra viene catturato insieme ai suoi compagni dai tedeschi. Riuscirà a fuggire in mare con una barchetta ma assopitosi si sveglierà in una terra allucinata, un’interminabile pianura che pullula di carcasse di pesci marciti. Il protagonista dovrà attraversare questo limbo incredibile e nefasto finché non giungerà nei pressi di una gola.
La caratteristica di questo racconto come di altri è quella di tenere la narrazione in sospeso nel dubbio sogno/realtà. Sta succedendo tutto per davvero? Lo stile descrittivo delle immense geografie apocalittiche e infernali è una connotazione che rende già pregiato questo giovane racconto, come l’insinuazione che esiste sempre qualcosa che “non si può raccontare” perché troppo tremendo da digerire per un semplice cervello umano.
Nella gola spettrale di questo mondo onirico emerso dagli abissi marini il nostro protagonista al cospetto di un gigantesco monolite adorno da ciclopiche sculture ai piedi di un baratro, sarò lo spettatore dell’apparizione di Dagon, che abbracciando il monolito eretto per idolatrarlo da millenni riscomparirà poi negli abissi.
L’uomo riuscirà a tornare a casa ma non sarà più lo stesso, ovviamente.
Fino a che Lovecraft non ci regala un finale che abbraccia a tutti gli effetti l’incipit:
“La fine è vicina. Sento un rumore alla porta, come se un immenso corpo viscido vi premesse contro. Non mi troverà. Dio quella mano! La finestra! La finestra!”
Tra i libri che hanno attinto alla mitologia dagoniana di Lovecraft vogliamo citare Dagondi Fred Chappell, del 1972, un romanzo Southern Gothic dalla tesa trama psicologica che si immerge nell’immaginario del ciclo di Chtulhu in maniera singolare.
In cinematografia abbiamo Dagon – La mutazione del male di Stuart Gordon, del 2001. In questa pellicola dagli esiti comunque incerti, la trama riprende più che altro il racconto La maschera di Innsmouth. Per certi versi è degna di nota perché qualche suggestione lovecraftiana riesce a produrla ma sempre troppo poche, rischiando di degenerare in un trash poco consono alle aspettative di una proposizione degli incubi “inafferrabili” dello scrittore.
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