Appare disco assolutamente non facile e carico di fascino, un’opera che vuole sfuggire alle classificazioni della critica e nonostante tutto di difficile reperibilità circa i debiti musicali per come è organizzato ogni pezzo, ossia, pure riconoscendone i vari, pare che esso viva autonomamente rianimandoli; è evidente il forte incrocio con due opere maxime, l’ “On The Corner” di Miles e “Fear Of The Music” dei Talking Heads, nonché l’afrobeat kutiano.
Penso che i Mamuthones siano molto avanti nella concezione di un particolare sentire musicale forte di una spinta evolutiva e progressista, al punto da creare una specie di mostro in movimento; è proprio una creatura quella che ci parla ascoltando i brani.
Non lo so, quasi non vorrei recensire questo disco, come se non meritasse d’essere analizzato, spiegato, perché è fatto esclusivamente per essere assorbito, assaggiato, osservato, vissuto. Si resta attoniti di fronte a lui, nasce quasi una certa involontaria diffidenza nell’avvicinamento, pur non potendo farne a meno di tenerlo con se, nel proprio apparecchio, per tentare il contatto con la materia insolita; come se la creatura prodotta dai musicisti volesse sostituirsi a noi, i destinatari, quale suo esoterico desiderio e di contro inviarci nel mondo da dove proviene.
Garantisco che non vi è nulla di repulsivo, ma qualcosa di ostico viene iniettato nell’anima, poiché il corpo di questo che io chiamo mostro tende a venir fuori dal disco non come uno spirito, o come un fantasma-entità, è invece provvisto di corporeità costretta da forze pazzesche, inimmaginabili compressioni, dilatazioni estreme e lacerazioni tensive che lo istigano ad essere polarizzato verso l’esterno; basta guardare la copertina del disco e notare la mimesi/nemesi che coinvolge noi e la musica tirata fuori ad ogni giro del disco, del laser del lettore, che imprime una incredibile forza che attesta la vitalità di qualcosa di meravigliosamente bestiale che spasima pur di staccarsi dalla sua dimensione. Eppure quella paura basilare, fondante, ispiratrice, attrae spaventosamente, aggancia il suo artiglio velenoso.
Mamuthones è una band che annovera musicisti versatili, ad esempio ritroviamo il Davì degli Orange Car Crash alla batteria, qui già recensiti, e i componenti degli ex Jennifer Gentle, uno dei pochi gruppi europei a guadagnare dalla Sub Pop un contratto per almeno 3 albums; ebbene questi ragazzi fanno passi da gigante componendo questo pazzo album, che quasi mi ricorda l’intro di “Spectrum” di Cobham, tagliente, fulmineo, che lascia di stucco.
¾ d’ora per un disco di soli 7 pezzi che sprona i sensi e i nervi seguendo la piega intrapresa che sa di boombastic.
Il primo brano a intrattenere è “Cars”, pare si rivolga a un certo sound di derivazione anni ’80, qualcosa che ha a che vedere con i Talking Heads… psicotico!
“Show Me” parte in corsa, le sonorità si dispiegano, ponendo in evidenza il basso, le percussioni, e la chitarra che sferraglia sul pattern ossessivo, gioca ossessivamente sulle ritmiche rock supportate a volte da incursioni di tastiera e qualche effetto rumoristico: è un treno di delizia che costringe le menti ad entrare nella sua claustrofobica visione sperimentale.
“Fear On The Corner” si addossa la componente ritmica africana, chitarra-bassi-percussioni, la voce filtrata cerca di piegare sfuggenti traiettorie e la chitarra distorce in stile avanguardia che, seppur insaporita dal piglio jazzistico, segue e si dissocia dalla primaria linea battente; i cori assecondano il pezzo in veste sciamanica.
Il quarto pezzo “The Wrong Side” rotea intorno ad un totem in cui danze tribali, sempre di matrice afro, sconvolgono gli assetti, la chitarra tagliente alla Peter Green di “The End Of The Game”, o alla Greg Ginn vs David Byrne, campeggiano selvagge cercando il groove perfetto all’interno della ritmica scardinante.
“Alone” è la vera rivelazione del lavoro, molto orecchiabile, strizza l’occhio al funky, trova una ritmica ballabile molto eighties, è il pezzo distintivo che secondo me permette un passo in avanti a tutta una elaborazione di trame strette, fatta di scambi da microsolco, fin’ora esibita: qui il panorama si espande e ne traiamo godimento. Intorno al quinto minuto e 40 il basso si inceppa e la ritmica cambia dalla sua fissità, il cosmo scende in terra o la terra ascende al cosmo, le libertà che il gruppo si prende hanno molto di psichedelico, ma anche umori di certo Free Jazz. Giusto il ritmo ci tiene legati ad una dimensionalità.
“Simone Choule” proviene da un’eco polanskiano, è il sesto pezzo ed ancora si svolge su terreni pop, ci si vede chiaro attraverso, sebbene l’atm sia decisamente cupa. Il synth inventa l’assolo. Il pezzo è forse il più eterogeneo e colorato con sovrapposizione di livelli e tonalità atipiche di pitture cosmiche, astratte, spersonalizzanti.
“Here We Are” genera sound fields, stati percussivi, pathos, è il gioiello del disco. Straniamento al massimo, danza soprannaturale notturna… incarna quei bassi istinti violenti addolciti da pasticche calmanti; sballogeno intruglio che abita concezioni spoglie e ricche, algide e bollenti, intrise di musica tribale e irlandese, una “March of no Reason” che si ama smembrandosi nelle polveri dello spazio per poi ritrovarci unitariamente ad un concerto dei Mamuthones in uno stato di coscienza elevato.
ETICHETTA: Rocket Recordings
TRACKLIST
01. Cars 04:45
02. Show Me 04:48
03. Fear On The Corner 05:21
04. The Wrong Side 05:25
05. Alone 08:04
06. Simone Choule 04:42
07. Here We Are 09:51
LINE-UP
Alessio Gastaldello: voice, synth
Francesco Lovison: synth
Matteo Polato: guitars,
Andrea Davì: drums, percussions