Nello scorso dicembre mentre mi trovavo fuori regione (Piemonte) ho appreso le notizie riguardanti i tentativi intrapresi dai migranti di valicare le montagne (in pieno inverno) per raggiungere la Francia. Non è una novità che i migranti cerchino, come possono di andare un paese europeo dove hanno un parente, amici o dove potrebbero tentare di crearsi una vita nuova, ma in questo caso e per quanto mi riguarda, vi sono alcuni elementi nuovi. Questi ultimi avvenimenti sono a me vicini, a livello geografico e stanno accadendo in inverno, quando i valichi alpini sono sepolti dalla neve e le temperature sono in media di al di sotto dello zero termico. La montagna per sua natura è minacciosa per le asperità, per i repentini cambi del tempo e lo è per chiunque, figurarsi per chi l’affronta per la prima volta e per di più con la presenza di neve e ghiaccio. Da qualche anno le terre alte sono anche diventate, per alcuni aspetti un luogo in ridefinizione, rispetto a quello che sono state dal boom economico in poi. Si assiste, per varie ragioni (per lo più socio-economiche ed ambientali) a fenomeni di ripopolamento da parte dei giovani, con la creazione di piccoli ecosistemi sostenibili. Al tempo stesso viene messo in discussione il modello turistico dello sci e del mordi e fuggi, in relazione alla sostenibilità ambientale ed all’evoluzione dei flussi turistici. Queste discussioni sommate alle vicende ultime mi hanno dato la sensazione che si stia per rompere l’incanto che la montagna rappresenta, cioè la drammaticità di eventi come le migrazioni va a posizionarsi direttamente nel paesaggio da cartolina e mostra che quella sia soltanto una cartolina. La montagna è anche altro e viene fuori proprio nella drammaticità, perché chi si trova in difficoltà viene soccorso, sia esso un turista con le infradito o un alpinista esperto. Vale un po’ la stessa legge (non scritta) che c’è in mare, ed allora si rafforza l’idea che gli ambienti lontani dalle città, hanno maggiore capacità di unire e nel mio caso (…) di risvegliare.
I due luoghi interessati da questa vicenda sono il Colle della Scala ed il Colle del Monginevro, due valichi dell’alta Val Susa al confine con la Francia. I due valichi si trovano a pochi chilometri di distanza tra loro e sono i più vicini alla stazione ferroviaria di Bardonecchia (sulla linea che collega Torino alla Francia tramite il tunnel del Frejus, inutilizzabile per chi è sprovvisto di documenti). Dopo la creazione delle barriere a Ventimiglia, al Brennero ed a Chiasso, questa è una delle poche vie in cui tentare il passaggio di frontiera. Dalla stazione di Bardonecchia si percorrono 6 km a piedi lungo una strada asfaltata che porta in Valle Stretta, dove si imbocca una strada poderale (in parte battuta) che porta al Colle della Scala, che corrisponde al confine di stato e da dove si scende verso la località di Nevache che dista 20 chilometri dalla prima stazione ferroviaria, situata a Briancon. Pochi chilometri prima di Bardonecchia, sulla stessa linea ferroviaria si trova Oulx, da lì si può raggiungere Claviere, attraverso 16 chilometri di strada statale. Nei pressi di quest’ultima località c’è l’latro confine di stato corrispondente con il Colle de Monginevro (distante circa 10 chilometri da Briancon). Quindi i migranti che tentano di passare in Francia hanno da percorrere, una volta scesi dal treno, 30 chilometri a piedi: nel migliore dei casi con il pullman di linea o facendo autostop oppure a piedi lungo la strada asfaltata che porta al Colle del Monginevro. Nell’ipotesi più pericolosa debbono camminare nella neve lungo la poderale che porta al Colle della Scala.
Lungo queste vie si contano quotidianamente circa 20 ragazzi africani che tentano di passare il confine. Sinora le donne sono state poche, ma alcune di esse hanno tentato il passaggio con i loro figli. La maggioranza di chi tenta questa strada è di lingua francofona ed intraprende questa via dopo aver fatto un viaggio in mezzo all’Africa (chiamarlo viaggio non ha molto senso, in realtà), dopo essere stati rinchiusi nei centri di detenzione della Libia e dopo essere riusciti ad attraversare il Mar Mediterraneo in gommone. Rimando ad altri siti, gli approfondimenti su tutto quello che debbono affrontare, dai rischi ai respingimenti. I tentativi di passare in Francia hanno avuto inizio più di un’anno fa ed in conseguenza si è creata una rete di solidarietà e supporto su entrambi i lati del confine, in Val Susa e nell’area di Briancon sia per sensibilizzare su quello che sta accadendo che per dare assistenza (in montagna, a chi è in difficoltà si presta comunque soccorso). Questa rete ha organizzato per il 14 Gennaio una marcia sulla neve a cavallo del confine tra Claviere e Monginevro. Ho deciso di prenderne parte in ragione di quanto scritto sopra ed anche perché mi è tornata in mente ad una frase che avevo maturato stando (due anni fa) per una settimana su un altro confine tra Italia e Francia, quello del Colle della Maddalena, tra la valle Stura di Demonte e la valle d’Ubaye:
La frontiera è incontro non è chiusura ed esclusione.
Lassù alloggiavo presso l’omonimo rifugio che si trova esattamente sulla linea di confine, dove non c’è alcuna dogana o sbarra ed è semplicemente un valico in cui le persone transitano e di conseguenza viaggiano, si incontrano, trasportano mercanzie, nulla di più di quanto accade da millenni sui valichi alpini. In occidente il significato di montagna prima di entrare nella dimensione romantica, cioè nel magnifico, aveva il valore di impedimento, di luogo inavvicinabile, ciò nonostante già nel Medioevo si sono trovati dei passaggi, dei valichi per trasportare genti, mercanzie, che in seguito sono stati utilizzati per fughe e migrazioni. L’importanza del valico nel contesto delle vicende umane è testimoniato dalla costruzione di locande, rifugi, ospizi su quei luoghi, come fece Bernardo di Mentone che ne fece costruire alcuni sui colli alpini della Valle d’Aosta, attorno all’anno 1000 per dare soccorso ai viandanti. In tempi più recenti il valico permise all’alpinista Ettore Castiglioni di mettere in salvo oltre il confine svizzero antifascisti ed ebrei perseguitati dal fascismo, durante il secondo conflitto mondiale. Le linee di confine sulle Alpi sono una convenzione degli stati ottocenteschi, tanto che lungo tutto il confine tra Italia e Francia si trovano numerosi ceppi con date indicative di come il confine sia stato spostato nei secoli in base agli accordi tra gli Stati stessi. In precedenza le genti che abitavano queste aree, non li consideravano confini, ma luoghi di passaggio per gli scambi di mercanzie, per la sussistenza.
Domenica 14 Gennaio, sono partito per Claviere, assieme ad amici, con i sentimenti e con le convinzioni che ho qui riportato. Siamo arrivati nella località attorno alle 10 di mattina, accolti da un paesaggio invernale prossimo alla sceneggiatura cinematografica: quattro giorni prima era nevicato, depositando a terra un metro e mezzo di neve fresca. Claviere si sviluppa lungo la strada statale che porta al confine secondo lo schema di una località sciistica, tanto che per le strade abbiamo incontrato sciatori che uscivano dagli hotel per raggiungere le piste. A metà del paese e sulla stessa via c’era il concentramento dei partecipanti alla marcia, attesi dagli organizzatori della rete con bevande calde e panini. Dopo un’ora, in attesa dell’arrivo dei partecipanti (considerando che una buona parte di essi proveniva dalla pianura o da zone limitrofe) la marcia è partita dietro allo striscione Briser les frontières (abbattere le frontiere, nonché nome di questa rete informale) lungo la strada in direzione del confine. Dopo aver percorso un centinaio di metri ed in prossimità della vecchia costruzione del confine Italiano c’erano schierate le forze di Polizia a chiudere la strada. Il corteo ha girato a sinistra per spostarsi nella neve e proprio in questo passaggio tra la strada e la neve è stato possibile quantificare la folla accorsa, che era dell’ordine di qualche centinaia e nel contesto del manto bianco dava un bell’effetto. Il tratto che divide le due località è di circa 2 chilometri ed il percorso di marcia si è sviluppato sulla traccia abitualmente seguita da chi cammina con le ciaspole, e che corrisponde alla traccia seguita dai migranti per cercare di evitare la frontiera. Questo era lo scenario in cui la manifestazione si è svolta, un’ambiente surreale, tra alberi ricolmi di neve, qualche sciatore ed il suono di centinaia di passi sulla neve pressata. Da davanti, il corteo era scortato da una decina di agenti della Gendarmerie a piedi. Durante il cammino si vedevano sfrecciare sciatori sulle vicine piste ed alcuni di essi si fermavano: l’impressione era che fossero almeno incuriositi, non sfilavano via dopo qualche secondo (secondo l’ormai imperante livello di attenzione dettato dalla velocità con cui si sfoglia il news feed di Facebook). E’ insolito vedere un corteo di centinaia di persone, su un manto bianco, nei pressi di una località sciistica, così come è insolito che dei ragazzi dell’Africa si avventurino lassù per raggiungere una terra che possa (e voglia) ospitarli. Dopo circa un’ora di cammino si è giunti a Monginevro e qui siamo rientrati sulla strada dove c’è stato l’incontro con il gruppo francese della rete che ha accompagnato la marcia verso il centro del paese (se si può considerare tale, la località è ancora più scarna rispetto a Claviere). Dopo una sosta in via ed accompagnati da un freddo costante (la temperatura era attorno ai meno due gradi), la carovana di persone ha percorso un tratto di statale in direzione Italia verso la postazione di dogana francese, che è stata riattivata per poter controllare chi sia sprovvisto di documenti (i migranti). Ad attendere il corteo c’erano le forze di Polizia, francesi ed italiane, nonostante questo c’è stato modo di sostare e riscaldarsi con del succo di mela caldo ed del vin brulé, prima di proseguire il cammino di rientro lungo la strada statale, sino a Claviere. La marcia nella neve al freddo, ma coperti con equipaggiamenti di montagna, ha raccontato cosa significhi provare ad avventurarsi per questi luoghi, con indumenti non adatti e con scarpe da ginnastica come fanno i ragazzi africani. I rischi che corrono (ipotermia, cadute) sono per loro meno convincenti della volontà che hanno di andare avanti, nonostante tutto: non hanno un posto in cui tornare perchè una volta lasciato un centro di accoglienza per più di 72 ore non si ha più il diritto di tornare e perché il cammino che hanno percorso sinora è stato altrettanto rischioso. Forse questa è una nuova pagina che si apre per la montagna ? In fondo, che cosa è, se non il terreno dell’avventura e della frontiera (inteso come la ricerca di nuovi limiti) ? Nel frattempo, si può dare supporto attivo a chi sta facendo qualcosa sul campo per evitare tragedie e cercare di abbattere l’indifferenza. La rete che ha organizzato la marcia ha creato dei punti di raccolta di vestiti invernali e scarponi in bassa Val Susa (a Bussoleno, ad Exilles ed a Chianocco), rimando al link per tutte le informazioni e riferimenti.
Altri articoli sulla vicenda:
http://parolesulconfine.com/rotta-migratoria-tra-morte-e-liberta/
Una risposta
semplicemente il miglior articolo mai apparso sulle nostre pagine. un grazie di cuore a Fabio per una testimonianza su qualcosa che va ben oltre noi. grazie.