Come dicevo con l’autore di questo disco pochi giorni orsono è una vera iattura che, da troppi anni a questa parte, una fulgida realtà dell’estate italiana come il festivalbar abbia chiuso i battenti lasciando noi, estimatori del sublime, orfani di una kermesse la cui importanza sarebbe limitante definire fondamentale.
Ovviamente se ne parlava in quanto Maximilian in tale contesto ci sarebbe stato davvero bene portando tra le genti abbronzate di sole e fandonie i suoi pezzi disimpegnati e di facile fruibilità.
Tieni duro e non ti abbattere fratello di troppe battaglie perse il passo verso il successo di massa è solo rimandato.
E come potrebbero non dischiudersi le porte della popolarità verso chi apre il proprio album con un omaggio – riuscitissimo – allo spaghetti western riprendendo un pezzo datato 1966?
Ma mica finisce qui, Trait of Tears va a battere i sentieri scoscesi del Nick Cave più desolato ed apocalittico, Blue Train mi ha ricordato un disco che tutti avranno dimenticato a parte io e l’autore vale a dire quello di Roger Manning targato 1988, sia in quelle canzoni che in quelle ivi contenute si dimostra infatti come si possa essere menestrelli senza risultare stantii e stereotipati.
Downtown Blues è il mio brano preferito del lotto, è blues con l’intensità ed il feeling dei quali necessito con quel quid che fa davvero la differenza, Glass of Beer in fondo è il pezzo più fruibile del disco, fila via come una partita in trincea del mio Genoa in trasferta, chiude il tutto Cielo Latino il cui ascolto fa scivolare in uno splendido stato di oblio e dolce disperazione dai quali non si vuole (non si riesce?) a rialzarsi.
Siete pronti per far trasportare la vostra anima verso la fine oscura della strada? Ok, ho citato Van Morrison che il dio dei perdenti mi perdoni, o che almeno chiuda un occhio. L’estate sta finendo un’anno se ne va io sono ancora solo non è una novità.
Così almeno non venite a dirmi che ho soli riferimenti colti con i quali riempirmi la bocca.