“Stop Moving To Florida”: singolo scelto ed estratto dai Melvins per la promozione radio.
L’attacco è hard rock AOR puro, di certo nell’accezione data da King Buzzo che è tutto dire, invece i nostri coverizzano “STOP” dei James Gang (1971), infatti, la chiusura della premessa iniziale si liquefa subitanea facendo cambiare stato fisico alla track. KB attenta al microfono un pazzoide idioma da sberleffo drunk bluesy&roll (memore a suo modo del predecessore) sparando fuori una dialogica a senso unico che trova i soli corrispondenti nei ricettivi tam tam dei ‘gregari’, che martellano duro sino al lancio di fionda del boogie per poi ritornare al solo martellamento conclusivo: si tratta di “Moving To Florida” dei Butthole Surfer, presa in prestito da “Cream Corn from the Socket of Davis” (1985), che incrocia la precedente song. Fa sorridere di soddisfazione il raffronto tra il cantato di Haynes dei BS e quello di King Buzzo, usano due registri vocali agli antipodi pur restando entrambi sovvertitori.
Sostiamo di base in territori blues, rock.
Il successivo vertiginoso “Embrace The Rub” tiene i tempi su standard più elevati di velocità… 1:40 di colto punk’n’roll fanno volare l’ascoltatore, divertendosi a soffiare su vorticose girandole. La melodia è dolce sospiro nel lindo sfrenato galoppìo degli strumenti (tra cui si distingue un piano).
Stop and go ben assestato. Dopo la sfinente corsa è il momento di riprendere fiato: “Don’t forget To Breathe” spiffera caldissimo doomy blues, lento ed insinuante, marcato dal cadenzato percussivo e ovviamente dal basso; il soffuso stirato del cantato identifica un lungo agognato sussurro che attende solamente la sei corde strasvalvolata di KB per deliziare le orecchie. Voodoo-grunge cosparso di stridente splendore chitarristico scoperchia le pentole fatte dal diavolo – a proposito chi le aveva coperte? – mentre la tastiera/synth trapanante e siderale veleggia magnificamente indisturbata lungo i circa 8 minuti che si dissolvono nel finale gong.
“Flamboyant Duck”. Lo start è legato ad una ballata flower servita da chitarra acustica, banjo, e voce dilatata da eco. Qualche accento di elettrica e il basso serpeggiante attorno ad Eva, totalmente immersi in un’amalgama paradisiaca. E poi, beh, l’orgasmo: wha wha liquidi, slinguate di basso, tocchi seducenti di batteria, feedback screziati, controllato ‘ascendente/discendente’ della chitarra e il pericoloso banjo in assolo che si insinua, Re della palude, anaconda del Mississippi, nelle nostre menti e in quella di Eva… Sequenza film indemoniata e immorale, perché da lì a poco scoppierà il putiferio.
“Break Bread”. Rock ad alta energia esternata da tutti gli strumenti che esplodono in un trionfo debordante, i due bassi si scoprono finalmente e risalta la buona cura delle parti vocali. Non si capisce se i Melvins vogliano tenersi buono il mercato riuscendo più fruibili, o se si stiano divertendo da matti a suonare.
1, 2, 3… 11, 12, 13 secondi e poi afferri che è il pezzo dei Beatles “I Want To Hold Your Hand”: riffs granitici, la coppia di bassi svisa alla grande e si poga in stile Blue Cheer; Dale Crover svetta colpendo le pelli irresistibilmente aggraziato, il cui drumming viene paragonato ai volteggi dei sufi; KB strizza la sua 6 corde come se fosse l’ultima bottiglia di whisky a cui tirare il collo, estraendo liquido fino all’ultima goccia. La produzione immortala la band glorificandone il suono diretto, cristallino, godibile, con alta propensione all’abbattimento della linearità: beh, chiedetelo ai bassi+chitarra+drums quando imperversano follemente salendo e scendendo in picchiata dal rollercoaster atomico. Phew!
Il brano fece da apripista ai Beatles verso lo snobistico e chiuso mercato U.S.A, da quel momento in poi la beatlemania sarà più ficcante lì che in Inghilterra, sancendo pure l’apertura di scambio irreversibile tra i due paesi in materia di ‘pop culture’. Datato 1964, anno di nascita di King Buzzo.
“Prenup Butter” è song alla Kiss: il sugo si tira quando la materia agisce libera, cioè, giunti più o meno al focus centrale che ne esprime il pieno ribollente messaggio: pare una scopata ‘sto pezzo! Orgia di sensualità, perdizione psichedelica, urlante libido, si riversano sull’ascoltatore: al minuto 1:22 registriamo l’acme della frenesia del diavolo.
Un’aura avvelenata e sensibilmente sottile ammanta di malizia il molto moto mato mosso umore della band.
Iniziato con una schitarrata Black Sabbath, “Graveyard” intona un grandioso lamento che inneggia al ritmo battente e pesante; i cori selvaggi, liberatori, sanno di ubriachi e strafottenti vampiri; la chitarra su queste basi non ha eguali, esaspera spasmodica.
Ce ne viene in mano lo spettrale Rock&Soul che buca l’anima, tenendola inchiodata, sadicamente avvolta, al piacere ricercato.
Cover dei Butthole Surfers in “Locust Abortion Technician” (1987).
L’album non aggiunge nulla di particolarmente nuovo al sound della band, se si esclude l’inserimento in organico di un secondo bassista, Jeff Pinkus dei Butthole Surfer, già occasionale membro dei Melvins, e ben tre cover su otto pezzi compiuti; eppure qualcosa di sottrattivo aleggia, mescolato ad una sorta di ponderatezza congrua.
La pista Butthole Surfer sembra sia il nuovo aggancio da seguire in futuro. Tutto sommato percepisco il lavoro devotamente americano nel suono, pur essendo coinvolto nelle numerose sollecitazioni di generi sonori, che sono anche il succo del disco, consacrandoli ugualmente ad un equilibrio armonico, orbitando su altissimi livelli.
D’altra parte loro non si sbilanciano molto, dotati di fair play, dicono così: “It’s a good album”.
ETICHETTA: Ipecac Recordings
TRACKLIST
1. Stop Moving To Florida
2. Embrace The Rub
3. Don’t Forget To Breathe
4. Flamboyant Duck
5. Break Bread
6. I Want To Hold Your Hand
7. Prenup Butter
8. Graveyard
LINE-UP
Roger “Buzz” Osborne, alias King Buzzo – vocal, guitar
Dale Crover – drums
Steven McDonald – bass
Jeff Pinkus – bass
Una risposta
Secondo me potevano fare tranquillamente un doppio album, cavalcare il mestiere ma anche la grazia del loro tocco. Un disco che avrebbe potuto porsi come l'”Exile on Main Street” degli Stones… o il “Sandinista” dei Clash…
fare un po’ di tutto senza strafare.
Resta il fattissimo che a me piace troppo “PAT” disco.