Non accenna a spegnersi il sacro fuoco creativo di Buzz Osborne, e questo non può essere altro che un bene per la comunità mondiale del rock ‘n’ roll. Il leggendario riccioluto frontman e chitarrista originario di Aberdeen (Washington) infatti, al netto di una discografia sterminata, poche settimane fa è arrivato a pubblicare l’album numero ventinove coi suoi Melvins, una cifra di incredibile longevità e prolificità che rende l’ensemble seattleite-californiano quasi una versione in miniatura (e in salsa alternative rock) dei Grateful Dead.
“Tarantula Heart“, nuovo capitolo nel percorso della multiforme creatura dai tentacoli proto-grunge/stoner/sludge/alternative/punk/noise/psych/blues/heavy rock, ha visto “King Buzzo” e sodali (il fidato batterista Dale Crover e il bassista Steven McDonald) sperimentare, per la prima volta in studio (con l’aiuto del producer e collaboratore di lunga data Toshi Kasai) con un autentico taglia-e-cuci sonoro, nato dopo l’invito di Osborne ai musicisti – e amici – Ray Mayorga (alla batteria) e Gary Chester (alla chitarra) a suonare insieme alla band (tutto documentato in uno special sulla realizzazione del full length) elaborandone poi i riff e i fill di batteria e riassemblando le varie parti registrate con nuova musica scritta appositamente per riadattare e integrare il tutto, in modo da ricavarne cinque pezzi totalmente nuovi, un inedito processo (s)compositivo che ha trovato riscontri entusiastici tra i compagni di viaggio di “King B”.
Il disco si apre con la mastodontica “Pain equals funny“, quasi venti minuti di allucinata suite heavy rock/sludge/doom, caratterizzata da diversi stop-and-go, in cui i nostri ribadiscono ancora una volta che, grazie al loro pot-pourri sonico summenzionato – e frullato fino a ottenere un sound “originale” – riescono a sfuggire a qualsiasi etichetta e catalogazione precisa nel R’N’R (se si esclude il calderone “alternative”, e ormai la definizione di “padrini del grunge” di Seattle gli va stretta) potendosi permettere di fare e disfare a loro piacimento, e conservando il pregio di non somigliare a nessun altro: i Melvins suonano solo come i Melvins. Due batterie che pestano all’unisono si possono udire in tutta la loro grezza magniloquenza soprattutto nel singolo “Working the ditch“, che si regge su pesanti riffoni Sabbathiani, proseguendo poi con “She’s got weird arms“, forse il pezzo più “orecchiabile” del lotto, ma comunque 100% Melvins (per quanto possa essere “melodica” una canzone o qualsiasi stramberia sfornata da questi simpatici energumeni) mentre con “Allergic to food” si costeggiano lidi noise-punk schizzati in un vulcanico rullo compressore sonoro che travolge tutto ciò che incontra. “Smiler” chiude l’Lp tra il fuoco e le fiamme di un altro rozzo heavy rock Osborniano.
Uno, dieci, cento, mille Buzz Osborne: musicisti e personaggi genuini come lui andrebbero clonati. Abbiamo ancora un fottuto bisogno di dischi-schiacciasassi come “Tarantula Heart” e della lucida follia della mente che li ha partoriti, confidando nella speranza che tempo (e salute) preservino per tanti anni il sarcasmo fracassone dei Melvins.