C’è nebbia.
È buio.
Si sente quel salato e stringente odore di piscia che ti entra dalle nari e pare ti formicoli poi in tutto il corpo, penetrandoti nell’organismo, mettendo sull’allerta ogni poro, e pare che ogni gusto, sapore, odore, per i prossimi dieci anni possederà in maniera inamovibile quell’ostinato lezzo d’urea, azoto e ammoniaca combinata in un disgustoso, marcio prodotto che pare ristagnare in ogni dove.
In questa fottuta palude.
In questo luogo del non-so.
Questo limbo di freddo e nebbia e piscio e forse cadaveri nascosti da predatori umani lungo le tangenziali vicine.
M’immagino già le carcasse delle auto delle vittime depredate, strozzate, torturate, sodomizzate e fatte a pezzi, quei ruderi scuri dalle ruote mosce che come dolmen di metallo arrugginito sono piantati lungo i fondali di queste pozze malsane d’acqua marcia.
Ma ora io sono qui.
Ci deve essere un motivo.
E certo, ci deve essere.
La memoria gioca brutti scherzi.
La memoria è un terno al lotto a volte, giochi un numero per sapere, di solito perdi. Ma continui.
È una specie di malattia patologica del gioco. Scommettere diventa una prassi quando non ti ricordi il passato, vai a tentoni, ci provi, chi sa se ci azzecchi.
Cerchi di essere un novello Sherlock Holmes e ti butti sullo studio logico epistemologico delle tue ferite, il sangue sui vestiti, le scarpe infangate, quei graffi sul volto, la zona d’interesse, la tua emotività sconnessa.
Ma si perde in questo gioco, sempre.
Non ci sono gli strumenti per arrivare a una soluzione.
Sono qua, il volto graffiato, il sangue sui vestiti, la puzzad’urina di questa palude e poi il buio.
Ci sarebbe gente che godrebbe ad essere nella mia situazione.
Non-ricordarsi-un-cazzo.
In questo modo non si vive di malinconie, di perdite, di sconfitte, eccetera, eccetera. La mamma mi ha insegnato a vedere il lato positivo. Penso.
E poi un boato, e un altro, più forte, e una scossa al terreno e mi metto una mano in testa e mi accorgo di avere un elmetto, lo tolgo, c’è una cazzo di carta infilata in una cinghia consunta di stoffa, un asso di picche. Le mie mani tremano, le mie mani sono piene di terra e grumi di sangue. E un altro rombo e poi un fortissimo rumore di pale – un elicottero.
Cazzo. Amici? Nemici? Mi butto dentro un cespuglio, dei rovi minuscoli mi pungolano le gambe, il culo, parte delle braccia.
Poi una grossa luce, un BROOOM stordente, pezzi di terra che saltano come grossi coriandoli pesanti e schizzano nell’acqua torbida, poi delle urla, urla che si avvicinano.
Sono salvo o sono morto?
Rimango fermo, il respiro affannato.
Sento i passi che giungono velocemente, sono tanti, una decina penso.
Perché cazzo non ho un’arma?
Arrivano, sempre più vicino. Li scorgo: sono 7-8 ragazzotti, non hanno divise, uno è vestito da una cosa che mi pare ungrosso panda, un altro sembra un vampiro, un altro ancora non so se sia una donna o cosa ma ha una corta minigonna, dei fluenti capelli biondi e un marcato rossetto rosso.
Gridano: «Carlo! Carlo!». Chi è Carlo, sono io, un altro, nessuno?
E l’elicottero dov’è? Merda, l’ho sentito, nitidamente.
Il panda mi vede, è un grasso panda con occhietti cisposi e folto pelo bianco e nero, immacolato, una piccola coda a pon pon sbatacchia sul culo, mi si avvicina, ride, ma il suo mi pare un ghigno, mi alzo di scatto, gli occhi di fuori, sono pronto ad uccidere.
«Carlo, che fai?», mi dice questo fetido, malvagio, grasso panda.
Non parlo, non saprei cosa dire e non ce la farei, comunque, ho la bocca secca, un nodo in gola.
Sento ancora degli scoppi, luci enormi si proiettano nel cielo. Loro ridono.
Moriremo tutti, perché cazzo ridono.
Anche il vampiro si avvicina: «Carlo, cazzo, è quasi l’ora».
Questi fottuti mi stanno tendendo una trappola, lo so. Vorranno crocifiggermi e donare il mio sangue a qualche idolo perverso in questa palude di merda.
Sorridendo il vampiro fa bella mostra dei suoi canini appuntiti, una macchia rossa gli macchia la camicia bianca.
La donna mezza uomo scuote la testa, fa due passi, mette una mano sulla spalla del vampiro.
« Questa volta abbiamo esagerato, forse ».
« È quasi mezzanotteeee! », urla più indietro un individuo con un costume da maiale. « È quasi mezzanotte! », merda quel grido è angoscioso, mi stupra la testa, questi sono folli, faccio uno scatto secco, esco dal cespuglio, lancio il mio elmetto che fa una parabola e con un flop! si disperde tra le radici nodose nel buio.
Poi corro.
Corro velocissimo.
Non so dove andrò, ma lontano, lontano da quelle creature.
Il maiale: «Ragazzi, io torno alla villa, fra poco è capodanno,lasciatelo stare a quello lì, è perso».
La donna-uomo tira fuori dal reggiseno un involto, all’interno si intravedono dei cartoncini con colorate immagini impresse sopra. «Vuol dire che ce li prenderemo noi, gli altri».
Io corro.
Arriverò alla tangenziale.
La supererò.
Supererò ogni strada.
Succederà qualcosa. Forse qualcuno verrà in mio soccorso.
O forse troverò un paese, isolato, dove potermi riposare.
Intanto corro, finché il fiato me lo consente.
Supererò ogni arbusto, o fosso, o uomo, o auto, o pezzo di cemento che mi si parrà davanti.
Sarò un dio, invincibile, intoccabile.
Raggiungerò il cielo e poi la luna, mi introietterò in ogni emozione, paura, dolore, gioia e angoscia, vicine o lontane.
Sarò un tutt’uno con questo cosmo che perde budella in ogni parte.
Sarò scimmia e uccello.
Uomo e santo e assassino.
Correrò.
Illustrazione di Enrico Mazzone