Quale modo migliore per festeggiare il trentennale che pubblicare un album?
Probabilmente nessuno potremmo pensare. Certo, quello dei trent’anni è un traguardo di tutto rispetto e non sono poche le band che ci arrivano fiaccate, del tutto prive di idee e quanto mai prossime a diventare la cover band di loro stessi. Ma così non è [stato] per i My Dying Bride. Per nostra [e loro] fortuna. “The Ghost of Orion” è infatti un ottimo esempio di come si dovrebbe invecchiare.
L’album ha avuto una non facile gestazione e siamo stati davvero molto vicini alla nefasta eventualità di non vederlo mai pubblicato. I cinque anni che sono trascorsi da “Feel the Misery” sono probabilmente stati i peggiori per la band inglese. Alla figlia di Aaron Stainthorpe è stato diagnosticato il cancro [notizie recenti fortunatamente riportano una sua quasi completa ripresa al punto che è tornata a frequentare la scuola], Lena Abe è diventata mamma, Calvin Robertshaw dopo l’abbandono del 1999 ai tempi di “The Light at the End of the World” e il reintegro proprio su “Feel the Misery” nel 2015, ha nuovamente abbandonato la band alle soglie della registrazione del disco, stessa sorte per quello che riguarda il batterista Dan Mullins rimpiazzato dall’ex Paradise Lost Jeff Singer. Se a tutto questo aggiungiamo che dopo 29 anni di collaborazione con la britannica Peacevile per questo nuovo album siano passati alla tedesca Nuclear Blast possiamo tranquillamente comprendere come le incognite fossero decisamente superiori alle certezze.
Alla fine però, ascoltando e riascoltando “The Ghost of Orion” non possiamo che convenire sul fatto che tutto ciò pare non aver minimamente intaccato la solidità del gruppo [prima] e del disco [in seconda battuta]. Se come dice Aaron Stainthorpe la scelta di passare alla Nuclear Blast è stata dettata dalla necessità di fare quel salto di qualità indispensabile dopo 30 anni di idillio con la Peaceville, in funzione di una maggiore [e migliore] visibilità a livello mondiale, non abbiamo dubbi che l’obiettivo è stato raggiunto. Anche grazie ad un disco che suona esattamente come deve suonare un album di un gruppo che dopo tre decenni di carriera pare avere ancora molto da dire.
“The Ghost of Orion” è un album che possiamo pensare come diviso in due parti, tra loro separate ma comunque concatenate e meno eterogenee di quanto non si possa essere portati a credere in prima battuta. Connesse da un punto di vista concettuale meno da quello più strettamente sonoro. Possiamo individuare come spartiacque “The Solace” ultimo pezzo del primo dei due dischi di cui si compone l’album [la quarta traccia per chi ha invece la versione CD], brano a sé stante dell’album non solo per la presenza come ospite di Lindy-Fay Hella dei norvegesi Wardrunna alla voce solista, ma anche come linea di demarcazione tra una prima parte decisamente “immediata”, melodica e diretta ed una seconda molto più cupa, caratterizzata da brani di una certa lunghezza e pesantezza nel loro incedere che spingono verso l’abisso più oscuro e misterioso, ma senza perdere in eleganza.
Dal punto di vista sonoro siamo alle prese con i My Dying Bride di sempre. Grevi e pesanti come nei loro tempi migliori.
Pur se più “orecchiabili” nella prima parte [scelta che va di pari passo con la logica di voler ampliare il loro pubblico, con brani dall’approccio più accessibile] riescono a mantenere inalterato il loro mood triste, soffocante e disperato. L’album, composto quasi interamente dal chitarrista Andrew Craighan, non può non risentire di questo suo “monopolio” chitarristico, anche se in modo molto meno “intricato” rispetto al passato. I riff “à la My Dying Bride” granitici, ossessivi e “romantici” sono ancora l’ossatura portante del disco, ma arrivano in modo meno complesso in fase di costruzione, risultando più facili da digerire, per un album che riesce ad essere quindi al tempo stesso tanto classico quanto atipico.
Concettualmente “The Ghost of Orion” racconta la rinascita dell’anima nel momento in cui, maggiormente straziata dal dolore, nel suo momento più buio, inizia a combattere fino a risorgere, mettendoci a confronto con i reali valori della vita. È grazie alle liriche che il grande lavoro di Aaron Stainthorpe alla voce vede brillare il suo climax, con la delicata ma faticosa costruzione di avvolgenti trame vocali che richiamano cori dal sapore decisamente evocativo come fossero parti recitate di un salmo decadente che scava in cerca delle nostre più nascoste emozioni. Cercando quelle più intime, più delicate e più toccanti.
Dopo 30 anni i My Dying Bride non avrebbero da dimostrare assolutamente niente. Ma si mettono ugualmente in gioco, dando vita a quello che potrebbe essere il primo passo di una nuova fase evolutiva. Come fossimo davanti alla nascita di un MDB 2.0 che guarda al futuro.
In chiusura trovo giusto riportare le parole di Aaron in merito a chi gli ha chiesto quanto il cancro della figlia abbia influito sulla nascita dei brani: “non ho voluto calcare la mano coi miei drammi familiari nel momento in cui abbiamo creato l’album, farlo avrebbe significato mettermi nella posizione di finire per odiarlo, impedendomi di ascoltarlo in futuro e di suonarne i brani dal vivo”.
Credo non ci sia niente altro da aggiungere.