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Recensione : NIGHT BEATS – RAJAN

La neopsichedelia incontra Bollywood (?). Da questa esotica mistura prende corpo il nuovo corso di Danny Lee Blackwell, unico membro fondatore attivo del progetto garage-psych statunitense dei Night Beats, giunti al sesto studio album con “Rajan” (titolo che prende spunto da uno dei nomi del frontman, e che in sanscrito significa “re”) pubblicato nel luglio di questo 2023 che sta per volgere al termine.

Americano di nascita, ma per metà di origini indiane da parte di madre, una danzatrice pratica dell’arte neo-classica Bharatanatyam che ha influenzato gli ascolti del giovane Blackwell, che sin da teenager ha imparato a combinare l’ascolto di musica indiana (Mohammed Rafi) iraniana e orientale con la psichedelia di 13th Floor Elevators, Seeds, Electric Prunes e altre band della stagione del Western Sixties garage rock, con le quali coglieva similitudini, nonostante ci fosse un oceano (terrestre e culturale) di differenza tra i due mondi.

Tutto ciò gli ha permesso di convogliare queste ispirazioni verso un sound più arioso, che mantiene le consuete coordinate artistiche dei Night Beats, da sempre orientate su un canovaccio fatto di melodie accattivanti e ritmi ipnotici psych-pop, ma oggi aperte a più possibilità e soluzioni che spaziano attraverso atmosfere orientaleggianti che si fondono con l’R&B e il soul, un bagaglio musicale figlio dell’insegnamento e degli incoraggiamenti della madre, che lo ha sempre esortato e spronato a essere libero di creare, suonare e incidere, senza preconcetti, tutta la musica che gli procuri emozioni.

E l’opener del disco, nonché singolo di lancio, “Hot Ghee“, incapsula perfettamente il concetto in quasi quattro minuti in cui si fondono elementi di raro deep funk anatolico underground col garage/psych rock, per poi proseguire coi sei minuti di morbida psichedelia sognante di “Blue” e tuffarsi nel garage/soul con un tocco di tropicalismo brasiliano in “Nightmare“. Melodie alla Velvet/Lou insaporiscono “Motion picture“, mentre “Anxious mind” e “Dusty jungle” si adagiano placidamente su lidi soft psych e “Thank you” sembra quasi fare il verso al soul-pop dei Black Keys più mainstream. “Osaka” (che vede la partecipazione di Ambrose Kenny-Smith all’armonica e ai cori) torna felicemente su sentieri da trip lisergico vicini al suo adorato Roky Erickson e “Cautionary Tale” sfiora il crooning, seppure imbevuto di guitar tremolo blues/psych. La (forse un po’ troppo) rilassata “9 to 5” prepara il terreno per il brano finale del disco, “Morocco blues“, di gran lunga il pezzo migliore del lotto (almeno per chi vi scrive) in cui si sublima in modo convincente il melting pot, patrocinato da Blackwell, tra il garage/blues/psych di stampo Night Beats e fragranze “Eastern“.

Il menestrello texano, insomma, va dritto per la sua strada, portando avanti un processo di maturazione artistica, anche se sinceramente i Night Beats si facevano preferire maggiormente nei loro momenti più ruspanti e meno mosci, ma nel complesso “Rajan” è un long playing che si fa apprezzare e che necessita di diversi ascolti per essere assimilato in tutte le sue sfumature.

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