A distanza di tre anni dall’ottimo “Blu”, recensito dall’ infaticabile Massimo Argo su queste nostre stesse pagine, come un album in cui “la vita e la rabbia fluiscono accanto alla morte, come è naturale che sia”, tornano a trovarci i Norse, una delle realtà più interessanti del panorama italiano. Nome magari ancora poco conosciuto, ma da tenere in grande considerazione, non fosse altro che per l’immenso potenziale che stanno dimostrando di avere.
A discapito di realtà che inquinano l’etere con ogni belinata che registrano propinandocela come imprescindibile, i Norse hanno scelto di dose con attenzione le loro apparizioni. Giusto un paio di album e questo split nel giro di un lustro, ma tutti di grande spessore, e, cosa più importante, in crescita esponenziale a livello qualitativo. Ogni loro release diventa quindi il modo per tastare il terreno, e cercare di capire quanto ancora possibile (e lecito) aspettarsi da un progetto che ha dimostrato di sapere perfettamente quello che ha in mente, e di riuscire a metterlo altrettanto perfettamente in atto.
Lo split con gli statunitensi Abandonacy ce li presenta in ottima forma. Non fatevi ingannare dal fatto che siano soltanto due brani. Non è con la prolificità che si identifica la qualità. Meno che mai, come detto in apertura, nel caso dei Norse. Due brani bastano e avanzano per fare chiarezza. Un gruppo “il tiro” se ce l’ha lo capisci da subito, non c’è bisogno di una ridda di pezzi senza sosta. E i Norse ce l’hanno eccome.
Dando seguito ad un minimalismo grafico che li contraddistingue e che è parte integrante del progetto, i Norse sposano un’estetica sonora di assoluta intensità, che, partendo appunto da precise e azzeccatissime idee, ci prende e ci porta laddove possiamo dare del tu al dolore, senza troppi giri di parole. Il loro è un sound “sporco” che riesce a rendere concreta quell’insofferenza che portiamo dentro, svuotandoci di ogni energia. Tra post punk e psichedelia darkeggiante il trio piemontese mostra grande personalità a livello di scelte e di arrangiamenti. Perizia che si sposa alla perfezione con un approccio concettuale che racconta il nostro inconscio di uomini contemporanei. Spiegando, da un lato, quanto sia difficile superare il senso di colpa che ci assale dopo una serie di decisioni sbagliate, e innesca un circolo vizioso da cui è davvero dura emanciparsi.
“ora che il tempo si è fermato su un cielo nero gravido di pianto attendo paziente una pioggia che lavi via ogni mio sbaglio ora che sono come mi volevi tu resto intorbidito per non odiarmi più ora che sono come mi volevi tu fingo di non capire ciò che sono diventato ora che sono come mi volevi tu rimane solo il vuoto di ciò che ho abbandonato ora che sei solamente una pioggia di sentimenti che muoiono su di me”
E dall’altro affrontando l’idea della complicità intesa come condivisione del dolore.
“è giusto sussurrartelo come abbiamo sempre parlato per renderti partecipe per renderti complice che in mare ho lanciato sassi che non sanno affogare”
Per quello che riguarda lo spazio degli statunitensi Abandoncy non c’è molto da dire. Forse perché l’impatto emotivo dei Norse ci ha privato della voglia di ascoltare altro, forse perché sono davvero distanti da quelle che sono le nostre esigenze acustiche. Sta di fatto che si tratta di un interessante progetto noise che non fa sconti a nessuno. Riuscendo ad essere intransigente e ignorante. E a suo modo estremamente efficace. Soprattutto nel momento in cui si riesce a entrare in profondità nel giusto mood, che ci permette di capire quanto organizzato possa essere il loro apparente disordine. Come detto, personalmente li ho trovati un passo indietro rispetto ai Norse, soprattutto da un punto di vista emotivo, freddi rispetto al fuoco che hanno dentro i nostri conterranei.