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Note sui 25 anni di “Come On Die Young” dei Mogwai

Venerdì 29 marzo, mattina presto. Piove a dirotto, il cielo plumbeo sembra il diaframma di un enorme animale: pulsa, vibra. Mai domo, muove acqua e venti, sposta le onde del mare con la forza incontenibile di un megalodonte.

Solo, nella stanza, osservo la mia copia personale di Come On die Young. Ce ne sono tante come lei, ma questa è la mia; comprata all’uscita, esattamente 25 anni fa, è più che un semplice oggetto. Le vibrazioni che mi trasmette, anche solo al tocco, sono qualcosa di indicibile, qualcosa che si avvicina al vero senso del tutto. Già, perché questo, per me, non è un album qualsiasi, è un vaso, una sorta di intelletto universale, un contenitore metafisico di essenza ineffabile.

“And that music is so powerful that it’s quite beyond my control and, uh, when I’m in the grips of it I don’t feel pleasure and I don’t feel pain, either physically or emotionally
Do you understand what I’m talking about?
Have you ever, have you ever felt like that?”

Non lo ascolto molto spesso; quasi mai, a dire il vero. Perché mi travolge, ogni fottuta volta mi prende al petto e mi fa stare male. E il problema è che non capisco mai, una volta ultimato l’ascolto, se esso abbia avuto o meno un effetto catartico: invece di sublimarle, mi pare che accentui sensibilmente le emozioni più irrefrenabili che covano dentro me. È un amplificatore di pulsioni, quindi lo devo prendere a dosi molto, molto ridotte, altrimenti rischio davvero di stare male. Soprattutto in questo periodo, in cui mi sento travolto da un vortice di emozioni incontrollabili, in cui sono particolarmente vulnerabile, non dovrei neppure avvicinarmi a un disco del genere, mai e poi mai. Purtuttavia, vista l’occasione speciale, non ho potuto non concedergli un ascolto. Glielo dovevo.

“Old songs stay ‘til the end
Sad songs remind me of friends
And the way that it is, I could leave it all
And I ask myself, would you care at all?”

Questo disco non è certo un capolavoro, tutt’altro: è pieno di difetti e imperfezioni; è scostante, troppo lungo e un po’ monotono. I Mogwai hanno fatto decisamente di meglio nel corso della loro lunga carriera. Ed è questa una caratteristica che me lo fa sentire ancora più vicino: non amo la perfezione, non l’ho mai amata e di certo non l’anelo; anzi, la rifuggo il più possibile, perché non mi rappresenta e non mi soddisfa. Le cose che sento più affini sono proprio quelle che hanno la forma di Come On Die Young, quelle cose che meglio riflettono il vero aspetto delle cose. Già, perché non ce la faccio proprio a concepire un universo teleologicamente determinato verso l’autorealizzazione di sé: mi sento naturalmente più vicino al caos, a ciò che dritto non è e che qualcosa che non funziona ce l’ha eccome. Ecco perché questo è uno dei miei dischi della vita, ecco perché oggi ne festeggio i venticinque anni.
Grazie, Come On Die Young.

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