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Recensione : Odessa – Costi/benefici

Troppi anni trascorsi a veder svilire il Post Hardcore a comodo giaciglio per pensieri da nulla: “da quando mi hai lasciato (riempire lo spazio con un qualsiasi gesto insulso atto a dimostrare trascuratezza nei costumi personali)”.

Di dischi come questo ne sentivo il bisogno come d’acqua nel deserto.

Troppi anni trascorsi a veder svilire il Post Hardcore a comodo giaciglio per pensieri da nulla: “da quando mi hai lasciato (riempire lo spazio con un qualsiasi gesto insulso atto a dimostrare trascuratezza nei costumi personali)”.

Il Post Hard-core italiano, dopo aver scavato un solco che lo univa idealmente al punk hardcore degli ’80, pareva essersi perso per sempre, acquisito all’interno di un meccanismo di addomesticamento, limatura dei tratti più aspri e integrazione in un famigerato indie rock italiano che, già da solo, spiegava poco se non niente.

Non più, quindi, quel linguaggio che, sondando le turbe interiori dell’individuo, usciva allo scoperto e relazionava il tutto all’esterno, al politico, al sociale… una lotta che partiva da dentro, dai propri inferni interiori e si riversava in una musica fatta di orgoglio, di disperazione, di dolcezza, di furia e di racconto.

Poi, per fortuna, dal passato sono giunti a noi gli Odessa.

Nomi grossi, enormi: The Infarto Sheisse, Concrete, Blood Red Hands, Laghetto. Forti del passato per raccontare il presente, sfidare il futuro:

“non quotato, non classificato, vuoi davvero gareggiare senza alcuna posa plastica?” la frase che mi volevo sentir dire, in un periodo storico dove ognuno di noi è ridotto a semplice unità produttiva. Senza slogan, solo capacità narrativa, tutto accompagnato da una base trionfale, opportunamente arrangiata: il trionfo dell’individuo quando, d’un tratto, si rende conto della propria condizione; misera certo, ma primo moto verso il miglioramento. Verso la lotta.

Questa “Profitto/Perdita”, che già nel titolo svela una propensione dichiarata verso la contestazione dell’attualità, apre il disco nel migliore dei modi: Post Hardcore, come si diceva, ma ancora più evoluto, in ricami chitarristici complessi e ben studiati, strutturati su di una base ritmica solida e rocciosa e un cantato che, dismesso l’urlato che un tempo contraddistingueva il genere, cerca la soluzione melodica per cercare picchi tragici e disperati.

Un cantato che raggiunge, insieme agli altri strumenti, il suo picco di rappresentazione nella successiva Parcae, un pezzo anthemico, dolcemente drammatico e che gode di una scrittura da primi della classe, con rimandi Post Rock negli arpeggi e nei momenti di quiete che la inframezzano e la caratterizzano.

Solo riflessioni sul crescere, cambiare, intraprendere vie inaspettate, separarsi.

Giustamente, dopo un pezzo così, ci sta tutta che Semel Abbas, Sempre Abbas suoni claustrofobica, chiusa, disperata: il giusto contrappunto alle soluzione più ariose del pezzo precedente:

“sospesi lungo il fiume/vediamo zattere colme di oblio/chiediamo sempre perché siamo solo contenitori vuoti/da riempire con senso di colpa larvale” e tutto intorno frana inesorabilmente, senza freno né possibilità di recupero…

Le Piramidi del Nulla è un pezzo facilmente imputabile ai Concrete (formazione romana dalla quale uno dei componenti del gruppo proviene) di Nunc Scio Lux Tenebris: Hardcore sfracellato in una disperazione Thrash Metal mascherata ad arte e che si risolve in un finale epico e tragico nello stesso istante (i Concrete erano famosi anche per questo).

Neon Circle chiude il tutto e chiude alla grande: le suggestioni Post Rock di Parcae qui ritornano prepotenti e si mescolano alle rivisitazioni Thrash del brano precedente, in un crescendo continuo, dove a crescere, oltre che il pathos, è anche lo scoramento di chi suona e di chi ascolta “invece scelgo di non essere/scelgo di non scegliere, scelgo di non essere abbastanza, per te”.

Un finale meraviglioso, condensato perfetto di musica e parole, come il Post Hardcore italiano ci ha sempre insegnato:

non si può parlare di emozioni se non sacrificando una parte di sé; oltre all’inchiostro, sul foglio, va buttato anche il proprio sangue, il proprio vissuto, fatto di sconfitte e fallimenti e non vergognarsene mai.

È raccontandosi per quello che si è veramente che si cambia quello che ci sta intorno.

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