Verso la fine degli anni ’90 presi il diploma di quinta superiore e feci il mio primo interrail. Una compagnia piuttosto eterogenea, tra frequentatori di discoteche, irriducibili sostenitori della sinistra storica (e stoica), un radicale di Pannella e me, un budget punk appassionato di centri sociali, birre da poco, vestiti logori e fermo sostenitore di un allegro nichilismo da bancone di un pub scadente.
Mi portai dietro uno walkman e misi insieme delle cassette da ascoltare per non ascoltare i compagni di viaggio, nei momenti in cui non era necessario parlarsi. Mummies, New Bomb Turks, Humpers, Bingo, Two Bo’s Maniacs, Trashwomen, Gories, Oblivians… tutti pressati in quattro o cinque cassette da 90 minuti.
La città che mi colpì di più fu Copenhagen, perché aveva, e spero abbia tutt’ora, la caratteristica che contraddistingue ogni città di porto: c’è più da vivere che da vedere, quell’insuperabile qualità che mi fa sentire più vicine questo tipo di agglomerati urbani rispetto a quelli più “monumentali” tipo Parigi o Roma. Era meraviglioso muoversi in una città così viva e verace al ritmo di I’m Not a Psycho degli Oblivians, ve l’assicuro.
Gli anni son passati e certe cose cambiano per rimanere uguali. Il budget punk dei ’90 si è evoluto, allo spirito selvaggio del garage punk dei 60’s ha integrato i Devo di “Duty now for the Future”, la velocità del hardcore alla Dead Kennedys; Jay Reatard, gli Spits, Timmy Vulgar e i primi Hospitals lo hanno condotto verso una contaminazione eterogenea e, se possibile, ancora più caotica della sua forma primigenia, per farlo sopravvivere, per farlo splendere di fronte a ogni nuovo decennio: gli Ok Satan, duo da Copenhagen, arrivano al termine di questo viaggio (dove termine, tuttavia, va letto come punto di sosta e non d’arrivo, un po’ come fu Copenhagen per me in quell’interrail di fine anni ’90): garage punk sparato, a bassa risoluzione (questo Ep è stato registrato con un quattro tracce in sala prove), atmosfere meccaniche al limite col post punk (anche grazie all’utilizzo di una drum machine che i nostri esibiscono, fieramente e giustamente, in ogni loro foto di gruppo come terzo elemento del gruppo), spruzzate Noise qua e là per insaporire il tutto e renderlo, se necessario (e sanno davvero farlo quando è necessario), ancora più aggressivo, più violento, più ipnotico…
Un viaggio che inizia con My Name ad una velocità aggressiva e ruspante, con testi di poche parole ripetuti fino all’ossessione, continua imperterrito a menare colpi al fulmicotone con Look at My Face, Stay on Drugs e They are all Feeling Sick (di questa ne hanno fatto anche un bellissimo video
per poi riprendere fiato sul post punk sbilenco di People are People. Ci si rialza su I Don’t Care (“non me ne frega di niente e tu dovresti fare lo stesso” poche parole ma buone, vere perle nichiliste lasciate sul bancone di un pub scadente) per poi, quasi immediatamente, infrangersi nel pantano di “Being Down”, brano più lento del disco dal Mood tutt’altro che salubre; un riff alla Stooges, quelli ancora in fase larvale e udibili solo in quelle rare registrazioni live reperibili solo su YouTube, con cantato declamato e paranoico che pare, proprio in virtù di questo, l’unico finale possibile in un Ep che, più che un viaggio, in fin dei conti, pare più l’attesa che intercorre tra il guasto di un ascensore e l’inevitabile schianto all’ultimo piano.
Come supporto gli Ok Sàtan , esattamente come il precedente e di poco , in termini di tempo, “Expanded Horizon”, hanno preferito la cassetta, piccolo gioiello vintage che negli anni continua a fare rigenerare il punk e che, a sua volta, in esso si rigenera.
Fa piacere pensare, o illudersi, che si lasci sempre qualcosa di sé in una città che si è visitato e particolarmente apprezzato, in un doveroso scambio all’insegna della gratitudine: le cassette, il Budget Punk, la bassa risoluzione, i vestiti sdruciti, l’allegro nichilismo da bancone di un pub scadente.