Questo cd mi è arrivato qualche settimana fa. Una piccola vacanza, di qualche giorno, è stata la chiave per ascoltare in auto questo disco della Sub Pop.
La figura di Orville Peck ricorda molto i protagonisti dei western di una volta, tra il fuorilegge e il diabolico. Lunghe strade assolate in mezzo al deserto, partite di poker tra imbroglioni. La sua maschera ci nasconde quegli States che leggiamo sui libri ( Denis Johnson o JT LeRoy) ma non ascoltiamo sui dischi. Un cowboy queer in maschera da bandito con nappe e camicia a scacchi Orville Peck presenta una versione molto stilizzata dell’America su questo, il suo album di debutto.
‘Pony’ è dominato dal country-pop degli anni ’60. Il suo tenore ricco e lamentoso ricorda pesantemente Roy Orbison a braccetto con David Lynch. Ciò è particolarmente evidente nel solitario noir country di “Big Sky“. “Dead of Night” si sviluppa attorno a un debole tamburo a sonagli con un fascino solitario, mentre la voce lucida di Peck si gonfia senza sforzo nel cantato intonato di Chris Isaak, puoi sentire l’incompatibilità del deserto del Nevada con l’amore giovane e omosessuale.
Alcune tracce sembrano ballate di Elvis. Altre si ispirano al vangelo. Le chitarre Tarantino in “Hope To Die”, la traccia assomiglia di più a un pezzo di shoegaze dell’era degli anni ’80 di Mazzy Star.
Un disco molto potente, per certi versi, la voce accattivante di Peck, che esprime un’intimità silenziosa e ravvicinata, è messa in scena dal coro semplice ma surreale.
La canzone parla dei suoi amanti del passato:
“un motociclista distaccato, un pugile violento e un carceriere eccessivamente protettivo nelle Florida Keys”, insieme alla loro scomparsa.
Con Pony, Orville Peck si è messo nel ring per il suo speciale Comeback del ’68.
È l’antieroe, immerso nella mitologia e un necessario anonimato (“a volte essere un cowboy vivo è sufficiente”).
Ma è l’approccio dell’autore nella rivoluzione queer country.
Nonostante la sua oscurità mascherata, è la tenerezza che vince la lotta, sempre.