John Dwyer è stato di parola. Il chitarrista, membro fondatore e frontman degli OSEES aveva promesso che il nuovo album della band sarebbe stato all’insegna di un ritorno alle radici garage/psych punk tipiche dell’ensemble, e che sarebbe stato concepito come un omaggio ai gruppi con cui il combo californiano si è formato (dai Black Flag ai Crass, dai Bad Brains agli Stooges ai Rudimentary Peni) e dai quali è stato ispirato nella sua parabola di prolifica garage band, tra le più attive e apprezzate nel circuito indipendente mondiale, che in passato ha frequentemente cambiato ragione sociale, e che il mese scorso con “A Foul Form” è arrivata a sfornare il venticinquesimo album in venticinque anni di elettrica esistenza.
Messe da parte le sperimentazioni progressive rock, metal e krautrock dei precedenti ultimi tre dischi, Dwyer e soci tornano a pestare veloci e feroci, sardonici e cacofonici, coniando l’espressione “brain stem cracking scum-punk” per descrivere la formula sonora in-your-face e senza troppi artifizi che caratterizza i dieci brani dell’Lp. Tutti i pezzi, a partire dalla furia hardcore dell’apripista “Funeral Solution“, trasudano di quella ritrovata urgenza espressiva, tipica del punk rock, che pervade anche le successive “Frock Block“, nella title track (un minuto e cinquanta secondi da pogo selvaggio sotto i palchi) nelle furiose distorsioni electro-punk di “Scum show” e “Fucking kill me“, e si fa più beffarda nella (relativamente) più cadenzata “Too late for suicide“, nell’allucinato incubo rumoristico di “A burden snared“, nella tirata anti-sbirraglia di “Perm Act” e nel caos controllato à la Crass di “Social Butt“, prima dell’omaggio finale ai succitati pionieri anarcho-punkers Rudimentary Peni, dei quali hanno proposto la cover di “Sacrifice“.
Che “AFF” sia un disco permeato da dark humor, cruda attualità (psicosi capitalista, fallimento della globalizzazione, violenza cieca poliziesca contro le persone, specialmente quelle più deboli e meno tutelate dal sistema) e poca speranza nel progresso del genere umano lo si evince anche dalla cupa copertina del disco (un teschio su una tela scura) ma Dwyer è più in forma che mai e ci sputa addosso liriche abbaiate in uno strazio canoro a metà strada tra Henry Rollins, Iggy Pop e Ian MacKaye.
“A Foul Form” vomita, contro chi ascolta, ventidue minuti astiosi e trascinanti, perfetti da far suonare se si vuole far sfogare la rabbia e la frustrazione che alberga in ognuno di noi, soprattutto ora in cui questi sono i sentimenti generali che imperversano maggiormente in questi tempi bui.
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