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Recensione : Paradise Lost – Obsidian

Paradise Lost: La loro ritrovata vena compositiva è figlia di una capacità di sintesi che li ha portati a realizzare un album completo, scorrevole e pulito ma soprattutto stilisticamente compresso all'interno di composizioni che esulano dai canoni del genere riuscendo a mantenersi entro durate relativamente ridotte che non superano mai i sei minuti di durata.

Sono stato un grande ammiratore dei Paradise Lost, soprattutto della loro prima incarnazione, quella che dagli esordi li ha portati al primo vero cambio stilistico con “One Second”.

Recentemente li avevo persi di vista, dedicandomi ad altro, pensando che avessero detto [e dato] tutto quanto nelle loro corde.

Mi sono dovuto [fortunatamente e prontamente] ricredere, perché il loro recentissimo “Obsidian” ce li ripropone al massimo splendore, riportandoci a quello che considero ancora il loro momento migliore, quello della prima metà degli anni novanta, quando la decadente melodia del loro stile era ai massimi livelli qualitativi.

Gli esperimenti elettronici della seconda parte dei novanta hanno segnato un percorso che li ha portati verso un potenziale baratro da cui sarebbe stato difficile riemergere. Per nostra [e loro] fortuna i Paradise Lost hanno sterzato per tempo, riprendendo quella strada che li aveva portati ai vertici della scena metal mondiale. Oggi con “Obsidian” sembrano tornati al loro massimo splendore, con un sound ritrovato, quanto mai granitico, ma soprattutto perfettamente riconoscibile sin dal primo ascolto.

Come se, per assurdo, non fosse passato un giorno solo da quel 1995 in cui stravolsero le nostre esistenza con un album epocale come “Draconian Times”.

La loro ritrovata vena compositiva è figlia di una capacità di sintesi che li ha portati a realizzare un album completo, scorrevole e pulito ma soprattutto stilisticamente compresso all’interno di composizioni che esulano dai canoni del genere riuscendo a mantenersi entro durate relativamente ridotte che non superano mai i sei minuti di durata.

“Obsidian” è un disco che non ha picchi eccelsi intorno a cui ruotano brani riempitivi ma un livello decisamente alto, qualitativamente parlando, riprendendo i migliori momenti della loro discografia e contestualizzandoli al presente. Segno inequivocabile che il grande pregio dei Paradise Lost è quello di aver destrutturato il concetto di tempo.

È assolutamente un disco senza tempo. I brani sono pensati realizzati e strutturati in modo da poter essere inseriti in uno qualunque dei loro grandi classici, di quindici o venti anni fa. Così come è valido il contrario, dal momento che i brani del suddetto album possono tranquillamente ancora essere ascoltati oggi ed apprezzati per la loro freschezza. È proprio questo il loro grande segreto, e cioè il riuscire a non dover per forza contestualizzare un album all’interno di un preciso momento storico della loro carriera, eccezion fatta per il primo ed immaturo [ma per me bellissimo] “Lost Paradise” e per un altro paio di episodi a sè stanti della loro trentennale carriera.

“Obsidian” suona alla grande. Dopo due ascolti i brani ti sono già entrati in testa e ti trovi a canticchiare ritornelli e melodie. È l’esatto contrario di un album come quello dei Katatonia che invece necessita di ascolti attenti e ripetuti per poter essere capito ed apprezzato. “Obsidian” ti prende da subito e da subito ti porta dove vuole, senza chiederti il permesso ti entra nel cervello e inizia a martellarti.

“Obsidian” suona esattamente come deve suonare un disco dei Paradise Lost. Non c’è una nota fuori posto. Una sbavatura, una concessione ad una qualsivoglia contaminazione aliena al loro muro di suono che da trent’anni continuo ad apprezzare. Ogni cosa è minuziosamente studiata per ricoprire al meglio il ruolo che deve. È proprio qui, però, nella freddezza del preparare tutto a tavolino che mi trovo a disagio nel momento in cui cerco di appassionarmi al disco. Avverto come una sensazione di algido distacco.

È una sensazione strana, che mi porta a pensare che i Paradise Lost abbiano voluto riprendersi ciò che avevano perduto realizzando un album che potesse accontentare quanta più gente possibile.

Quando penso che sia un disco bellissimo, cosa tra l’altro incontrovertibile, perchè lo è veramente, inizio a dubitare della loro spontaneità. È come se mancasse quel guizzo geniale che fa di un buon album un ottimo album. Per carità non fraintendetemi, “Obsidian” è un signor disco, e rispetto a certe loro recenti prove è un piccolo gioiello, ma non di va oltre il compitino scolastico. Non c’è niente di più di quello che i Paradise Lost hanno sempre offerto e che sanno offrire alle perfezione. Il disco suona esattamente come deve. Seduce dove si presta maggiormente all’ammiccamento auricolare e martella laddove serve tenere alta la ritmica. Ma come detto, oltre a questo non c’è altro.

Sono trent’anni che i Paradise Lost fanno dischi di un certo livello e questo non si sottrae alla loro vena, ancora ispirata nonostante le tre decadi. Ma per quella che è la mia idea di musica avrei sperato di trovare qualche azzardo, anche a costo di risultare fuori luogo rispetto alla granitica amalgama dell’album. Avrebbe in qualche modo rappresentato il segnale che non è andata smarrita la loro voglia di mettersi in gioco.

Ragion per cui nell’improvvisata ed aleatoria classifica con My Dying Bride e Katatonia non posso non relegare “Obsidian” al terzo ed ultimo posto.

Anche se, come detto, se il compitino scolastico regala album come questo, possiamo metterci la firma sin da subito.

Il problema è mio, sono io ad avere aspettative decisamente alte. Se volete solo godervi la musica senza andare a cercare i dettagli che stanno dietro e dentro la costruzione di un album allora “Obsidian” è perfetto per le vostre orecchie.

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