Sono passati già tre anni da Manners ma sembra ieri che la band con il falsetto più veloce del Massachusetts aveva raggiunto un successo quasi da psicosi collettiva, semplicemente accontentando tutti – stampa, pubblico e istituzioni della scena indie internazionale ma anche mass media e ascoltatori occasionali dal mondo pop. Già solo l’heavy rotation nella serieTV/culto Skins aveva portato un bel po’ di orecchie nuove ai cinque della Cambridge a stelle e strisce ma gli esempi che possono essere fatti sono sterminati.
Piuttosto prevedibilmente, per il secondo disco i cinque americani hanno deciso di compiere una decisa deviazione di rotta e svoltare su sonorità sempre chiaramente riconoscibili come Passion Pit ma che non ripetessero quanto già detto con l’esordio. Al pop il gruppo sembra essersi particolarmente affezionato: restano le atmosfere immediate e spesso ipnoticamente ripetitive ma spariscono più o meno totalmente il prima onnipresente falsetto e l’elettronica scoppiettante al cardiopalma, lasciando il posto a ritornelli corali il primo e a sonorità più rilassate e corpose – con pure qualche accenno strumentale – ma sempre estremamente catchy il secondo.
Quasi didascalicamente, la doppietta iniziale dà un’idea precisissima di cosa sia cambiato veramente dall’esordio: si parte con “Take A Walk”, il singolo di lancio del disco, super orecchiabile e contornato da synth ipnotici, più rilassata rispetto ai singoli migliori del lavoro precedente ma ugualmente coinvolgente, grazie ad un ritornello in calare che cattura fin dal primo ascolto; quindi “I’ll Be Alright”, un vero e proprio tuffo nel passato, quasi fosse una traccia inedita sfuggita dall’esordio, in cui ritornano l’elettronica adrenalinica al limite dell’esagitazione e il falsetto senza freno – rivisitati leggermente ‘in chiave Gossamer’.
Fino alla prima metà del disco inoltrata poi, tutto scorre liscio senza stonature in un pot-pourri di suggestioni sul filo del rasoio tra pop ed electro che non sbaglia un colpo. Troviamo dunque il terzo grande singolo del lotto, “Carried Away”, forte del suo azzecatissimo ritornello corale, seguito poi dalla ballata tranquilla a base di atmosfere quasi R&B “Constant Conversation” (di cui è appena uscito il suggestivo video ufficiale, postato qui sotto), l’energia elettronica ossimoricamente nostalgica di “Mirrored Sea” fino alla dolcezza macabra di “Cry Like A Ghost”.
Da qui in poi l’ascolto si fa faticoso. Se ancora “On My Way”, con la sua grandiosità e ampiezza vocale, e la coinvolgente-ma-non-troppo “Hideaway” reggono il passo, “Two Veils to Hide My Face”, “Love Is Greed” e “It’s Not My Fault I’m Happy” sembrano mancare del tutto il bersaglio: le atmosfere fiacche e bizzarre ricordano tanto quei brani-riempitivi che sono la norma in una certa tipologia di dischi mainstream. A salvare parzialmente la situazione, un tocco desolato ma intenso nel finale, con la straziante “Where We Belong”, che trova il modo di piegare l’elettronica ad atmosfere drammatiche e ricche di pathos.
Gossamer è il classico disco apparentemente fresco e disimpegnato – basta leggere i testi ed indagare la storia personale di Angelakos per perdere ogni innocenza – che ti augureresti per l’estate. Di certo i fan più affezionati storceranno un po’ il naso di fronte ad un lavoro che difficilmente riesce a reggere il paragone con il predecessore – soprattutto in quanto a verve e quantità/qualità delle idee proposte più che nella scelta di cambiare gli stilemi musicali che il gruppo aveva fatto ormai propri. La gestazione faticosa e travagliata del lavoro si sente chiaramente e la scelta – ormai all’ordine del giorno – di affollare tutti i pezzi migliori ad inizio scaletta non aiuta per niente a rendere più coinvolgente l’ascolto, mettendo anzi ancora più in risalto i difetti del disco.
In una scena musicale in cui non ci si basa più troppo sulla fidelizzazione all’artista e difficilmente all’esordio segue qualcosa di veramente interessante, un secondo disco tutto sommato dignitoso come questo può accontentare lo stesso e rappresenta per gli americani una buona occasione di chiudere una carriera inaspettatamente fortunata, lasciando intatto il proprio buon nome faticosamente guadagnato. Per i più intransigenti, resta comunque la possibilità di skippare quelle tre o quattro tracce stonate che compromettono il disco, per concentrarsi su quanto di buono – che non è poco – ci si può in realtà trovare.
TRACKLIST
1. Take A Walk
2. I’ll Be Alright
3. Carried Away
4. Constant Conversations
5. Mirrored Sea
6. Cry Like a Ghost
7. On My Way
8. Hideaway
9. Two Veils to Hide My Face
10. Love Is Greed
11. It’s Not My Fault I’m Happy
12. Where We Belong