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Recensione : Peace de Résistance-Bits and Pieces

Peace de Résistance: già ebbe a stupirci con la demo in cassetta “Hedgemakers”, il signor Mose, licenziata in fiera autoproduzione nell’ottobre 2020...

Già ebbe a stupirci con la demo in cassetta “Hedgemakers”, il signor Mose, licenziata in fiera autoproduzione nell’ottobre 2020: dopo aver sviscerato le possibilità di incontro tra l’Anarcho-Punk inglese di Mob, Zoundz e Subhumans e il Post Punk americano di Suburban Lawns e Los Microwaves con i meravigliosi Institute, adesso si lanciava nella riesumazione di quel rock autoriale, ma pur sempre profumato di strade, vicoli e brutti incontri newyorkesi, dei Lou Reed i suoi Velvet Underground… Fu un bell’ascoltare a suo tempo e in molti ci pascemmo su quello note così decadenti ma, al contempo, energiche e quel cantato annoiato ma per niente noioso.

Dopo un anno e mezzo rieccolo il nostro buon Mose, con un debutto sulla lunga che sa di progressione, di sviluppo di idee, di tributo e, in tutto questo, riesce a stupire per la seconda volta!

Boston Dynamics parte con un riff in odore di Reed al quale se ne sovrappone un altro, in fuzz, debitore del Fripp di Heroes… e io già qui mi sciolgo nelle trame suadenti di una voce ancora annoiata ma con sprazzi di una sensualità viziosa e sibillina.

“Don’t 1099” è puro Lo-Fi Garage inteso come lo avrebbero inteso i Velvet durante le registrazioni di quel capolavoro che è “White Light White Heat”: destrutturazione della materia prima, meteoriti di rumore improvvise, un pianoforte usato come una minaccia e poi sempre quei fraseggi di chitarra alla “Heroes”: un pezzo bellissimo.

Andamento a singhiozzo per “Heard Your Voice”, classica marcia protopunk in perfetta linea con gli Stooges di Funhouse ma con l’aggiunta di tastiere dalle armonie aperte che portano il pezzo verso lidi più melodici sul ritornello. La voce sembra più debitrice a Kim Fowley che ad un Reed o ad un Iggy Pop; tra lo stonato e il perverso, perfettamente inquadrata in un pezzo bellissimo e ispirato.

“Hailu Mergia Cover” è la felicità dell’incontro tra paranoie alla Suicide e funk rock corrotto da echi etnici, psichedelia e bassa risoluzione figlia dello Zamrock di Witch, Demonfuzz e Amanaz: New York città aperta, realtà di scambio e commistione…pezzo stupendo anche questo.

“We got the Right to be Healthy”, oltre che dire una grande verità (carica di significato e significante in questo dato periodo storico), è anche una hit senza tempo: ci si riappiana su ritmiche del grande Lou di Street Hassle e corettini appiccicosi che sanno di Glam e paradisi artificiali.

Exploitation è un altro colpo di genio: un loop in odore di elettronica povera e una chitarra scarna e dalle sfumatura orientaleggianti danno carattere e forma ad un pezzo risicatissimo ma fangoso, lento, vizioso, un piccolo miracolo di sintesi (il brano continua a girare su stesso mentre la voce balla tutta intorno fino a quando la chitarra si arrende ad un delay che porta ad un finale scatafascio, un finale che da più il senso dell’inevitabile ed ineludibile: la decadenza nella sua forma, se non più alta, senz’altro più veritiera).

Ci si rialza nel garage rock sgangherato di “Manifest Destiny”: ancora una chitarra drogata di fuzz e suggestioni frippiane disturba una ritmica ossessiva ed imperturbabile. La canzone non subisce il fascino di facili ritornelli e procede evolvendo solo per sottili ricami di arrangiamento.

“Alphabet Au Pair” ricorda un po’ gli Stones di Exile ma, come sopra, è sempre il delirio nascosto in una base che sa di Rock n’Blues ma anche di Kraut e periodi spesi a Berlino a farsi di cocaina e suggestioni da guerra fredda…

End of the Night puzza di Iggy Pop vestito da Idiota, una danza macabra ed insistente, ripetitiva, voce cupa, macabra narratrice di notti passate al lume di rare luci livide e pensieri macabri.

Si trova la pace in fondo al Tunnel? Non lo so, ma spererei di no. Assolutamente no.

“Surfing in Disguise” chiude per non chiudere, riavvolgendo il nastro su tutto il disco:

suggestioni funk psicheliche, da una chitarra mentre un’altra inquina il tutto, quasi in free form, con il solito fuzz impazzito, mentre la sezione ritmica pesta un solo tempo dall’inizio alla fine…

e si scivola così verso il fondo del barile, screziati di malessere e alcolici bevuti in troppa fretta. Il tempo pare non essere mai trascorso, lo spazio pare non essere cambiato eppure tutto è passato, tutto ha assunto una nuova forma, mentre il disco girava e la mente volava. Mi accorgo più ricco al termine di tutto questo; più stimolato e motivato.


Un disco newyorkese, certo, fino al midollo, ma, proprio perché tale, capace di aprirsi verso nuovi orizzonti stilistici, riprendere ciò che è stato, declinarlo e mescolarlo con echi dal terzo mondo e altre suggestioni.

Un Lou Reed (il suo fantasma aleggia e inquina e affiora con evidenza nel rigore stilistico in fase di composizione) strafatto di rock Zambiano e nuovi movimenti Punk e post Punk (dalla Lipsia degli Ex-White, dei Laffs e mille altre formazioni geniali che al momento imperversano in quella città, fino a quello statunitense che gli stessi Institute di Mose hanno contribuito a creare e portare avanti…): un tributo ad un mondo che, volenti o nolenti, sta cambiando, in forma sotterranea ed incurante di guerre e massacri consumati tra stati-nazione, verso un’apertura totale:

un senso come di internazionalismo che, da musicale come qui lo troviamo, speriamo possa divenire anche umano.




Peace de Résistance-Bits and Pieces

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