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Pino Manzella

Pino Manzella: le sue tele sono i fogli espulsi dal tempo. Depositi d’archivio, missive private, borderò di ipoteche, atti notarili, documenti della Cancelleria Centrale o di un Ospedale Civico o del Principe di Palagonia.

Pino Manzella nasce a Cinisi (PA) nel 1951. Studia Lingue e Letterature Straniere e si laurea all’Università di Palermo.
Fin dai primi anni Settanta disegna manifesti e vignette, per le attività politiche e culturali animate da Peppino Impastato fino al Circolo Musica e Cultura e a Radio Aut. Scrive lo scrittore Fabio Stassi:

“Le sue tele sono i fogli espulsi dal tempo. Depositi d’archivio, missive private, borderò di ipoteche, atti notarili, documenti della Cancelleria Centrale o di un Ospedale Civico o del Principe di Palagonia. Carte ingiallite come un dagherrotipo, con quell’odore tipico delle pergamene dove si smarrisce la nozio- ne adulta delle cose. Granulose al tatto, con la calligrafia inclinata dell’Ottocento o di altri secoli, date, luoghi, e parole esatte e altre inafferrabili. Ma la scrittura e la pittura, in Pino, si sovrappongono, si influenzano, sono un gioco di specchi e di rimandi. Una storia, non una trama. Un disegno nascosto tra le righe. Un paesaggio comune di ginestre riarse, montagne con l’occhio dei ciclopi e palme piegate dal vento. Ci sono artisti con cui hai un appuntamento, senza saperlo.”

Dagli anni Settanta espone in mostre personali e collettive ed in rassegne di carattere nazionale ed internazionale.

Svolge attività grafica e sue opere sono state pubblicate in alcune copertine della collana Storia dell’editore Franco Angeli, nonché in pubblicazioni della Rubbettino, Scirocco Edizioni, Di Girolamo Editore, Casa Memoria Impastato Edizioni, Arsenio edizioni e per alcune produzioni discografiche. Vasta la bibliografia in cataloghi e riviste specializzate.

Vive e lavora a Cinisi (PA). E-mail: pinomanzella3@gmail.com

 

Pino Manzella - Pino Manzella

… e qui, snervato sopra l’erba, ancora di me resta solo il mio cuore vivo. Pier Paolo Pasolini Ed è con un cuore in mano che il grande Milo Manara disegna Pasolini, un cuore disarmato offerto generosamente allo sguardo di chi guarda. Riprendendo quel disegno, per fare un omaggio a Manara e Pasolini assieme, quel cuore lo abbiamo disegnato stretto nel pugno sanguinante e pulsante di vita.

 

Perché questa era la letteratura per Pasolini, poesie, romanzi, saggi, film, impregnati di vitalità dolente ma anche realtà corporea concreta e splendida come il sesso e il piacere fisico. Ma è un desiderio diverso, quello di Pasolini, a quei tempi, fine anni Quaranta del secolo scorso, mal tollerato sia da destra che da sinistra (cacciato dal PCI “per indegnità morale e politica”).

 

Una diversità, l’omosessualità, inaccetta- bile per una certa Italia di allora, che lo sottopone a 33 processi in cui ha avuto 33 assoluzioni ma accompagnati da una continua operazione di dileggio, disprezzo e odio sui giornali, cinegiornali e riviste, una specie di macchina del fango sempre all’opera.

Ma che hanno in comune P. P. Pasolini, Peppino Impastato, Che Guevara e Fabrizio De André? Sono stati semplice- mente tra quelli che ci hanno aiutato, me e la mia generazione, a costruirci una visione del mondo con il loro radica- lismo, il loro anticonformismo, la loro ribellione al perbenismo, la loro solidarietà per gli “ultimi” e per i “vinti”, per l’affermazione di nuovi valori. Ognuno di loro mettendo a disposizione degli altri la propria intelligenza, la propria arte e, in qualche caso, la propria vita. Pasolini ci ha dato la sua passione civile intrecciata alla poesia che non può essere imbalsamata in qualche frase o in qualche banale citazione sui “social”.

Che Guevara viene qui ripreso banal- mente da quella celeberrima foto di Alberto Korda scattata il 6 marzo 1960 all’Avana e diventata simbolo universale stampato persino sulle magliette. Ma qui, se guardate con attenzione, è proprio su carte antiche cubane, recuperate durante un viaggio a Cuba, che è stato dipinto il Che, diventato un modello politico per i giovani europei tra gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso.

Una figura simbolo di rinnovamento sociale e di autonomia per i popoli dell’A- merica latina e dell’Africa e consegnata al mito da quella morte violenta e prematura da eroe universale perché Che Guevara non lotta per la patria, ma per l’umanità: “Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiu- stizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo.

E’ la qualità più bella di un buon rivoluzionario”. Peppino Impastato lo conosciamo tutti. Qui ricorderemo solo che intitolò il primo circolo politico – culturale che riuscì ad organizzare proprio a Che Guevara. Ed infine Fabrizio De André e la sua musica. Sentiamolo: “Le canzoni quindi servono a formare una coscienza. Sono una piccola goccia dove servirebbero secchi d’acqua. Cantare , credo che sia un ultimo grido di libertà.

Forse il più serio. Scrivere canzoni sta diventando una responsabilità sociale, ma se ne sono accorti in pochi. Esse entrano a far parte del patrimonio culturale di un popolo, sono parte della coscienza. Sentii fin da subito che il mio lavoro doveva camminare su due binari: l’ansia per una giustizia sociale che ancora non esiste e l’illusione di poter partecipare, in qualche modo, a un cambiamento del mondo. Quest’ultima si è sbriciolata presto, la prima, invece, rimane”. Giustizia sociale, cambiare il mondo, ecco il filo rosso che collega questi ritratti. Mettendoci il cuore, un cuore vivo e pulsante.

E sanguinante. Perché per quello che hanno scritto o cantato sono autori che rifiutano di essere relegati tra gli scaffali di una libreria e, anzi, le ridicole esternazioni di questa estate di certi politici e militari, ci confermano che delle loro parole abbiamo ancora bisogno. E poi c’è “Cinema” con quei due, Charlot e fidanzata, che se ne vanno pieni di speranza verso il loro futuro. Un fu- turo molto incerto per l’unico spettatore in tempi di covid e di “distanza di sicurezza”.

Tutti ripresi di spalle come di spalle sono le donne di questa mostra che, più che erotismo, ci trasmettono un inquietante senso di solitudine e di incomunicabilità. “Io so, ma non ho le prove”, scritto per il Corriere della sera del 14 novembre del 1974, è forse l’articolo più citato di Pasolini come esempio di un coraggio intellettuale che ormai non c’è più. Scrive Michele Serra: “Per dire “Io so”, nel 1974, bisognava essere Pasolini.

In bocca ad altri quell’azzardo, quella lucente furia, sarebbero sembrati ridicoli o inverosimili, o peggio ancora insignificanti. Con ben maggiore coscienza, e malinconia, possiamo dirlo oggi, nell’e- poca in cui “io so, ma non ho le prove” è diventato il dilagante logo della presunzione social, del popolino spietato e feroce che pasolineggia a buonissimo mercato, senza mai rischiare niente di davvero personale”. E con queste parole ci avviamo alla conclusione con alcune delle illustrazioni per il libro di aforismi di Lavinia Spalanca Nero di seppia.

Questa sezione l’abbiamo chiamata con il titolo di una illustrazione Non avrai altro IO all’infuori di me!!!

Qui ci siamo noi tutti, la nostra egolatria, il nostro vivere sempre nella vetrina dei social, sempre connessi perché se non fai vedere anche quello che mangi è come se non esistessi. Sempre connessi e sempre più soli. Chissà cosa avrebbe pensato

P.P. Pasolini di questa nostra umanità che non sa più staccarsi dal telefonino…

Pino Manzella

 

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