Piccola premessa: dovete sapere che quando il sottoscritto, in una recensione, scrive che una band “puzza”, questo termine non è mai inteso come un insulto, anzi, è quasi sempre un complimento, uno dei più belli che possa rivolgere a un gruppo (soprattutto se giovane e/o alle prime armi) perché il “puzzare” è sinonimo di essere veraci, non costruiti a tavolino da qualche manager o multinazionale, o quanto meno risultare abbastanza credibili quando si suona rock ‘n’ roll e si incide un disco. L’esatto contrario dell’essere percepiti come “puliti” (e, quindi, nella maggior parte dei casi, fighetti, finti) ai timpani di chi ascolta.
Chiusa la parentesi, sgombriamo subito il campo da equivoci: questi Poison Boys, quartetto di Chicago (Matt Dudzik voce/chitarra e polistrumentista, Steve Elfinger alla chitarra e backing vocals, Nico Bones al basso e backing vocals e Matt Chaney alla batteria) rientrano decisamente tra le proposte in ambito rock ‘n’ roll degli ultimi anni che, decisamente, “puzzano” che è un piacere, e durante l’ascolto di questo loro secondo album, “Don’t You Turn On Me“, il fetore è così gradevole che non ci si tappa mai il naso (o meglio, le orecchie). Nati nel 2014, questi ragazzacci hanno già dovuto affrontare situazioni difficili come la perdita prematura, nell’autunno dello stesso anno, del proprio bassista, a soli 23 anni (Mike Lippman) per overdose, e l’altrettanto coraggiosa decisione di andare avanti per onorare la memoria dell’amico scomparso troppo presto. Sono cresciuti ascoltando davvero roba buona, a quanto si evince dalle influenze che strabordano dalle loro canzoni: New York Dolls, Stooges, Sex Pistols, Johnny Thunders, Undertones, Dead Boys, Ramones e tante altre prelibatezze fragorose. La loro musica potrebbe essere definita come una mistura scapestrata tra glam/glitter rock anglo-americano, pub rock e primo punk inglese.
Dopo alcuni singoli e un Lp di debutto uscito nel 2019, è arrivata la loro seconda fatica sulla lunga distanza, licenziata da una etichetta australiana, anch’essa giovane (la Riot Records) sulle piattaforme streaming nell’ottobre dello scorso anno, ma presto verrà pubblicata anche in formato fisico, in vinile. I profili internettiani dei Poison Boys si sono presi la briga di farci sapere che questo long playing è “MEANT TO BE PLAYED LOUD!!!“, cioè è stato suonato e registrato in un modo tale che è richiesto l’inserimento nello stereo e l’innalzamento della manopola del volume al massimo, per godere pienamente della sua energia sguaiata. E non possiamo certo dare torto a questo proclama. Bastano poche note sparate dalla glammosissima title track à la Slade, posta in apertura dell’album, per catapultare mente e cuore dell’ascoltatore in un’altra epoca, tra la sporcizia materiale e morale di due capitali decadute e in rovina come la Londra e la New York della seconda metà degli anni Settanta, quando il rock ‘n’ roll si nutriva del clima di tensione sociale e disillusione giovanile e schifo per il mondo patinato e dorato delle rockstar miliardarie e irraggiungibili per tornare a riappropriarsi delle strade e di un genere (il rock ‘n’ roll) agli inizi eccitante, primordiale e pericoloso per lo status quo, successivamente neutralizzato, cooptato e sputtanato dalle grandi major discografiche, e provare a costruire una nuova scena dal basso, più genuina, lontana da lustrini e paillettes del successo da “Top of the pops” e che non parli più solo di soldi, amore, sesso, temi fantasy e altre frivolezze, ma anche dei problemi di tutti i giorni, dei problemi della gente comune e dei “kids”. Si prosegue con “Living on the edge of the knife“, a metà strada tra le due sponde dell’Atlantico (Pistols da un lato e Ramones/Dead Boys dall’altro) e una “Day by Day” che trasuda testosterone punk ’77 (Generation X) per poi passare a “Little speedway girl” e il suo riffone à la “Raw Power” che poi si snoda a metà tra Undertones e Heartbreakers. Sono ancora gli Undertones, a livello di influenza sonica, a fare capolino nella quinta traccia, “Keep knocking“, mentre “Dick in the dirt” è pura magia (drogata) New York Dolls/Johnny Thunders. Riusciamo anche a sentire le fragranze dei quattro finti fratelli portoricani in brani come “Can’t get you out of my mind” e “She’s nowhere” (quando parte quel coretto “uuuh aaah” la associo immediatamente all’intro di “Oh Oh I love her so“…) anche se quest’ultima è imbastardita da un feeling pub rock à la Slaughter and The Dogs. In “Nothing but darkness” ravvisiamo un’esuberanza degna dello Scandinavian punk ‘n’ roll degli Hellacopters, e torna il glam in “Sweet Marie“, prima di lasciarci travolgere dalle conclusive “I was cryin’“, che si avvicina molto al cantato e allo stile del primo Iggy Pop solista (quello di “The Idiot” e “Lust for Life”, per capirci) e la trascinante cover di “Take a chance with me” del compianto ex NY Dolls Jerry Nolan a ribadire e rendere omaggio alle radici glitter rock antesignane del punk.
Siamo felici di constastare che, anche nel 2022, esistano ancora band che, al di là di etichette e sottogeneri, vivono il rock ‘n’ roll come uno state of mind e una ragione di vita, e non come un trampolino di lancio per il mainstream, che poi le trasforma in fotomodelli provetti alle sfilate di Gucci. Questi ragazzi sono velenosi, astenersi neofiti e sprovveduti.
TRACKLIST
1. Don’t You Turn on Me
2. Living on the Edge of the Knife
3. Day by Day
4. Little Speedway Girl
5. Keep Knocking
6. Dick in the Dirt
7. Can’t Get You Out of My Mind
8. Nothing but Darkness
9. She’s Nowhere
10. Sweet Marie
11. I Was Cryin’
12. Take a Chance with Me (Jerry Nolan)
CREDITS
Recorded and Mixed by CJ Rayson
Mastered by Shimby McCreery
Produced by Matt Dudzik
Artwork by Alex Hagen
Additional. Musicians:
“Sleepy Doc” Julius Lange – Piano (on tracks 1, 6)
Joey Rubbish – Piano (on track 11)
S Joel Norman – Steinway (on tracks 10, 12)
Eli Wilson – Saxophone (on track 11)
Joey Pinter – Guitar (on track 12)
Dana Athens – Backing Vocals (on track 1)