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Il Pollo/non – Pollo, O Le Fallacie Di Cartesio (seconda Parte)

Il Pollo/non – Pollo, O Le Fallacie Di Cartesio (seconda Parte)

Il pollo/non-pollo, o le fallacie di Cartesio (Seconda parte)
Racconto di Daggo Roschi

Leggi la Prima parte

6

Nel suo scomodo letto, giunte oramai le [93,18], Skenderbey cercava ancora inutilmente di assimilare quel che gli aveva detto Sasha ma, anche una volta riportati alla mente, dai suoi ricordi della scuola di scienze sperimentali, i significati di tutti i paroloni che lo avevano investito durante la conversazione, c’era un punto dell’argomento che continuava a sfuggirgli: quand’è che una gallina smetteva di essere tale e diventava bioconvertitore?

Un animale, nato da animali, poteva smettere a un certo punto di essere un animale e diventare un essere inanimato?
Il problema, prima di allora, non gli si era mai posto. Non che prima non sapesse cosa fossero i bioconvertitori, però prima era un modo acritico e diverso di saperlo. Adesso invece, l’incapacità di delineare una netta distinzione, si stava rivelando un problema assillante, quasi quanto l’immagine del pollo (non è un pollo, è un bioconvertitore!).

La dissonanza cognitiva non era tacitabile e riemergeva ogni volta che tentava di dimenticarla.

Si sentiva affetto da una forma di schizofrenia annacquata che faceva sì che, nella sua testa, ci fossero idee tra loro incompatibili. Anzi, che ci fossero due menti tra loro incompatibili, una che ragionava utilizzando le regole morali che usava per relazionarsi con i polli e un’altra che utilizzava quelle pratiche per gestire i bioconvertitori.

Fu proprio quel pensiero, o forse la componente inconscia che lo aveva generato, a fornire al suo subconscio lo spunto mancante.

La voce acuta e nasale di Viola (di “Neuropsicologia ed Etologia”, secondo triennio di scienze sperimentali) risaliva dall’oblio richiamata dall’esigenza di completare il puzzle. – Seppure la capacità di vedere, intuitivamente, sia intesa come un’unica funzione mentale, disponiamo attualmente di numerose prove che ci presentano un quadro relativamente diverso.

Le luci della stanza si abbassarono e, sullo schermo della lavagna, apparve una spirale bianca su sfondo nero che ruotava su se stessa. Osservandola, l’idea che dava, era quella di risucchiare tutto ciò che le stava intorno. Gli provocava un fastidioso senso di vertigine.

Dovete guardarla dritta al centro, concentratevi.
Passarono circa quindici decamicri (– Decamicrogiorni. I decamicri non esistono nel sistema internazionale ragazzi! – Lo ammonì, parlando da un altro passato, la voce del professore di meccanica), poi sentì uno schiocco di dita e la luce si riaccese.

Adesso guardatemi in faccia.

Succedeva qualcosa di magico. Il viso secco di Viola implodeva: era evidentemente fermo ma, altrettanto palesemente, collassava su se stesso.

Quello che state osservando è un’incoerenza, un conflitto a posteriori tra diversi sistemi di elaborazione visiva. Siete consapevoli che la posizione del mio viso non sta cambiando ma, al contempo, i vostri sistemi di elaborazione neurale, e in particolare quelli relativi alla percezione del movimento, sono stati condizionati dalla spirale. I vostri centri superiori adesso ricevono segnali contrastanti da informatori diversi e, non disponendo in questo specifico caso di un meccanismo di preferenza gerarchica, accetta entrambe le versioni. Per questo implodo. Implodo senza implodere. Un po’ come la media di Maffucci.

La classe rise.

Il professore si arrestò per un po’ dallo spiegare, per dar tempo a tutti di riprendersi dall’illusione.

Movimento e posizione, ragazzi. Movimento e posizione. Sono informazioni integrate ma non sono elaborate fin da subito dalle stesse strutture. Per dirlo come piacerebbe ai nostri amici matematici, la fisiologia del vostro sistema visivo non incrocia i dati di tempo con quelli di spazio. La fisiologia stima direttamente il dato mediante altri stratagemmi, voi non siete calcolatrici, siete filtri.

Un’illuminazione, totalizzante e universale, investì infine la mente di Skenderbey.

I polli non esistevano.

Detta così sembrava anche a lui una cosa folle ma non poteva che essere altrimenti.

Numerose nozioni del suo passato di studente, che da diligente alunno aveva appreso senza mai capirle, di colpo acquisirono senso. La questione era generale.

Non erano solo i polli a non esistere, ma l’intero mondo come se lo era sempre rappresentato. Gli oggetti erano illusioni, come il movimento del viso di Viola. Tutti i confini e le separazioni non erano altro che inganni perpetrati dalla sua mente.

I polli, come categoria, non erano mai esistiti davvero e adesso che lo vedeva chiaramente non aveva più senso scervellarsi nel chiedersi quando il pollo smetteva di essere pollo. Era il concetto a essere inadeguato. Un’utile semplificazione. (– Un filtro per scremare la complessità della realtà, permettendo alle nostre limitate macchine cerebrali di fornire risposte idonee al contesto con le loro esigue risorse – gli suggerì, quasi annoiata, la voce acidula di Viola).

Gli oggetti adesso apparivano al microscopio della sua mente come confini geografici tra nazioni, totalmente arbitrari.

L’illusione, subdolamente perpetrata nella sua mente dall’uso acritico della lingua e delle ontologie che essa stessa imponeva al pensiero, si era di colpo dissolta.

Skenderbey assaporò un attimo di pace e soddisfazione e, nell’euforia di quell’inaspettata epifania, nuove illuminazioni lo raggiunsero, mentre altri tasselli andavano incastrandosi tra loro.

Il suo corpo, il suo corpo stesso. Anche quella era un’entità immaginaria: difficile distinguerlo dall’ambiente circostante. Le cellule, l’acqua e tutti gli atomi che lo costituivano non erano gli stessi di qualche anno prima.

Addirittura la sua mente, il flusso di coscienza che stava esperendo in quel preciso momento, ciò con cui più profondamente sentiva di dover identificare se stesso, anche quella era una realtà meramente transitoria. Le stesse cose che aveva vissuto oggi, se le avesse vissute a quindici anni, avrebbero sortito su di lui un effetto totalmente diverso. Un effetto a sua volta differente da quello che avrebbero sortito se avesse vissuto quella stessa esperienza l’indomani o fra quarant’anni.

Lui non esisteva e, se anche fosse esistiti, sarebbe stato un altro in ogni momento della sua storia.

Viola lo diceva sempre : – il monismo è identificare la mente con il corpo – e il corpo cambia!

La spiegazione non poteva essere altra se non quella che aveva trovato anche per il pollo, il se stesso immutabile, quello che si era sempre rappresentato, non esisteva.

I pezzi del suo corpo, a una certa scala, erano del resto già stati del tutto sostituiti.

Erano stati rimpiazzati con qualcosa che i suoi meccanismi mentali identificavano con quel che c’era prima ma, l’identificazione, era dovuta alle regole della sua mente e non alla reale coincidenza fisica degli enti. Percepiva se stesso come un’interezza separata solo perché qualche meccanismo neurologico soggiaceva a quella percezione. Non era un fatto reale.

Skenderbey si sentiva euforico. Stava sperimentando, direttamente sulla sua pelle, un radicale e potente cambio di paradigma, qualcosa di simile a quello che aveva provato quando era arrivato a capire davvero in che modo la terra potesse essere sferica.

Come l’idea di oggetto, anche la piattezza della terra era un ovvietà epistemica apparentemente incontestabile.
Una idea ancestrale, scolpita nella struttura del suo sistema nervoso: un intarsio nella sua testa, operato delle pressioni selettive subite dai suoi avi nel passato.

L’idea era valsa ai suoi antenati una maggior idoneità ai loro ambienti d’origine, consentiva loro di immaginare percorsi e traiettorie senza complicarsi troppo le cose ma, e questo era il punto, non era una rappresentazione veritiera di una realtà oggettiva.

Arrivata la cartografia, con necessità di rappresentare il mondo, le idee innate avevano smesso di funzionare.

Parecchi si dovevano essere scervellati per cercare di far quadrare i puzzle con i pezzi a disposizione e infine, una volta accortisi che certi tasselli non si incastravano proprio, qualcuno aveva deciso che le tessere dovevano essere abbandonate: qualche ipotesi prima considerata intoccabile fu rilassata e alla fine, una volta rammollito tutto abbastanza da potergli dare nuova forma, un nuovo inatteso panorama era emerso agli occhi di quei primi coraggiosi.

L’intuizione, quella innata che tutti avevano circa la natura del mondo, era stata rieducata dall’esperienza e, con il suo mutamento, la dissonanza silenziata. La nuova vetta era stata raggiunta cooptando concetti da costruzioni mentali diverse, idee estranee a quelle che veniva spontaneo usare a priori per inquadrare il fenomeno dello spazio: l’idea intuitiva di verticale universale era stata reinterpretata grazie alla geometria, così come quella di retta, l’idea di parallelismo e il concetto di piano.

Il libro, rivisto e reinterpretato, era infine tornato a essere leggibile.

Una vertigine d’estasi intellettuale percorse la schiena sudata di Skenderbey.

La consapevolezza dell’illusorietà, l’evanescenza di ogni sua rappresentazione, l’esperienza lo stava privando di ogni angoscia.

L’acquisita cognizione dell’arbitrarietà delle sue identificazioni aveva distrutto le relazioni, d’implicazione e necessità, che fino ad allora aveva dato per certe. Senza volerlo si era liberato di un fantasma, l’uomo che non era nella stanza, lo stesso da cui l’aveva messo in guardia il tecnico di laboratorio.

Il pollo (che non era pollo) era finalmente stato privato della sofferenza e della sua, altrimenti per Skenderbey inalienabile, dignità di animale.

Così come il sistema visivo poteva percepire il movimento senza percezione della posizione, così anche lui poteva disporre del necessario per rabbrividire senza al contempo provare paura.

Adesso lo riconosceva, lo vedeva senza turbamento: la nocicezione e il dolore non erano necessari alla coscienza così come la coscienza non lo era alla vita.

Quella confusione, quella sovrapposizione di concetti e sfumature che prima non riusciva a districare, adesso non c’era più. Adesso vedeva, filo per filo. Le trame dell’ordito.

Di colpo Skenderbey lo sentì. Qualcosa si ruppe e rompendosi si aprì. Sentì che tutte le sue passioni e i suoi stati d’animo non erano che fenomeni contingenti.

Privato dell’attributo della necessità tutto gli apparve differente, fu una nuova, ultima, ulteriore consapevolezza.
Finalmente sentì l’angoscia svanire e spandersi, diluirsi in quell’universo che, fino a quella sera, aveva sempre visto come separato da sé, ma che adesso era un tutt’uno con lui.

Fu un momento ecumenico, di universale compenetrazione cosmica e così conobbe anche un po’ dell’estasi, quella etimologica: uscì per un istante da se stesso e si dissolse.

 

Ciò che è difficile, per essere capito, può dover essere affrontato più volte ma, ciò che è capito, una volta capito, è per sempre.

Ogni volta che capiamo un teorema, che facciamo sua la nostra logica, non possiamo più smettere di vedere le verità che cela. Entro l’ordinario non c’è ritorno dalla comprensione.

Sante Caciari, Atti del convegno nazionale di biomatematica, Centro Zootecnia Avanzata, Firenze, Giugno 2025.

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